Regia di Fabrice Du Welz vedi scheda film
L'assenza dell'oggetto d'amore è un calvario, distrugge dal di dentro e distrugge la nostra percezione di ciò che c'è fuori, perché l'oggetto d'amore ci completa e ci compenetra, facendoci sentire meno soli e permettendo alla nostra anima di essere invasa dall'entusiasmo, da un sentimento che finalmente possa accompagnarci all'insegna dell'umorismo, della felicità. L'assenza dell'oggetto d'amore comporta un vortice di follia che più che sdoppiare, come nei frequenti fenomeni di schizofrenia, dimezza, castrando idealmente e anche fisicamente l'uomo (uomo inteso come maschio, e non come essere umano in generale). La violenza che ne fuoriuscirà, di conseguenza, è un atto profondamente umano di ricerca e di conforto. Per questo Bartel, proprietario di un albergo ormai scognito nella campagna desolata del Belgio, non è osservato dal rigorosissimo De Welz come un semplice antagonista privato del senno dalla vorace solitudine, ma è scrutato dall'occhio freddo del regista come un essere umano quasi normale, conseguenza ultima e "umana", quindi comprensibile, del terribile fatto del non essere amati. Così quando Marc finisce tra le sue grinfie col nuovo nome di Gloria, ex-moglie di Bartel, il quadro sarebbe completo, tranne per il fatto che una volta che Bartel ha riottenuto la moglie fuggita non vuole certo lasciarsela scappare. E Bartel diventa paradossalmente un buono, perché ci sarà sempre, rispetto a lui, una bestialità più feroce e più assetata di vendetta, benché anch'essa "poco amata" e alla ricerca di conforto. L'umanità è dunque nel baratro dell'umanissima follia, in cui la mancanza è incomprensione della realtà, e il vuoto dell'isolamento, come una nebbia, deforma ciò che vediamo. Dalla presa di coscienza della follia che si sta mettendo in scena si dovranno però aspettare circa cinquanta minuti, probabilmente i più belli dell'intero film di Fabrice De Welz, perché l'inquietudine è sì assenza, ma assenza incompresa, incapace di capire cosa effettivamente "manca", e il semplice disattendere alle convenzioni più normali (non ringraziare, chiedere ossessivamente compagnia, trovare un telefono staccato, essere abbracciati in maniera invadente da una donna anziana) diventa baratro di paura e tensione, perché per riappropriarsi di ciò che manca deve passare tempo, e attesa, e timore, e tensione. Dopo che invece l'inquietudine, in Calvaire, prende forma, e le assenze dovrebbero aver acquisito finalmente definizione, è allo sguardo del regista che comincia a mancare qualcosa, perché il suo diventa improvvisamente un gioco di stile, una scappatoia narrativa per lanciarsi in immagini davvero suggestive, dalle inquadrature dall'alto alle movenze improvvisamente ipercinetiche, ma con pochi contenuti, come se la seconda metà del film fosse la firma di un "autore", o di qualcuno che vuole sentirsi tale. Così, se la regia è così abile da far apprezzare senza condizione la splendida scena del ballo impazzito dentro un bar molto in stile Béla Tarr in cui finalmente individuiamo i super-cattivi, non è altrettanto potente quando entrano in ballo simboli cristologici un po' fini a se stessi, che forse vorrebbero guardare all'innocenza e al perdono ma non sanno essere più allusione e diventano semplice forma, quando invece il film, con l'atteggiamento materialistico di partenza, non lasciava spazio ad alcuni tipo di astrattismo su cui riflettere, asfissiando lo spettatore come solo qualche horror sa fare. Merito comunque, anche nella prima parte, della regia, che sa giostrarsi fra inquadrature fisse e lente carrellate, prima di perdersi nel controllatissimo delirio degli ultimi quaranta minuti. Un'opera monca e macroscopicamente scostante, che si scorda gradualmente quanto la realtà grezza e semplice sia già fonte di splendida, terrificante indefinitezza. Da confrontare con il successivo Frontiers di Xavier Gens, quantomeno per la scena del taglio di capelli e per le ambientazioni non troppo distanti, benché quello fosse carente di contenuti ma divertente nell'esibizione di uno splatter estremo e nauseabondo.
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