Regia di Lav Diaz vedi scheda film
L'interminabile cronaca di un faticoso pellegrinaggio, dominato dalla solitudine, che rende l'uomo indifeso ed arrancante. La macchina da presa resta immobile per decine di minuti, l'azione è pressoché nulla ed i dialoghi sono rari, lenti e ripetitivi, eppure il film non risulta mai noioso. Solo un maestro della visione può compiere un miracolo di tal portata; Diaz ci porge, con garbo e a piccoli sorsi, una storia diluita e rarefatta, in cui l'uomo apparentemente si perde, come nell'immenso oceano dell'esistenza. La cinepresa segue Heremias mentre percorre, passo dopo passo, lo schermo in diagonale, e da grande si fa piccolo, o da piccolo si fa grande, emergendo pian piano dallo sfondo buio. L'immagine, benché fissa, trae respiro proprio dalla profondità, spesso popolata di dettagli in movimento (animali, ventagli, fiamme, figure umane ed automezzi in lontananza), che catturano lo sguardo morbidamente, senza affaticarlo né monopolizzarlo. Ogni singola inquadratura ha lo scarno dinamismo di un dipinto animato, ha la leggerezza di una pittura su una tela increspata da un vento irregolare, con le pause che creano tensione e consentono di capire e contemplare. La pellicola procede secondo il naturale ritmo della vita, con l'azione che segue le cadenze del pensiero e dell'emozione, anziché conformarsi ai tempi compressi e forzati di certo cinema, che, creando attrito, finiscono quasi sempre per stancare. Il film così si protrae, intorno ai temi dell'attesa e della pazienza, che sono un ristoro salutare per l'anima, così come il cibo e il riposo lo sono per il corpo, e come ci ricordano gli stessi personaggi, manifestando spesso il desiderio di sostare per rifocillarsi. Un'opera d'arte e filosofia, che è, al contempo, un film di denuncia contro la prevaricazione e l'omertà regnanti nelle comunità rurali filippine. ["Stolto è il mio popolo: non mi conoscono, sono figli insipienti, senza intelligenza; sono esperti nel fare del male, ma non sanno compiere il bene. Guardai la terra ed ecco solitudine e vuoto, i cieli, e non v'era luce....Perché dal piccolo al grande tutti commettono frode; dal profeta al sacerdote tutti praticano la menzogna." Geremia 4, 22-23; 6, 13]
La scena del meticoloso interrogatorio di polizia, con cui si apre la parte III, è quasi un'introduzione allo spirito di questo film: la realtà, anche nei suoi eventi più insignificanti, è fatta di minuzie, di cui bisogna tenere conto, se il racconto deve essere plausibile e coerente. I mille aspetti "secondari" sono i frammenti del tempo e i ritagli dello spazio in cui il nostro agire tace o è assente: sono loro a formare quel "fuori da noi" che, in fondo, riempie la storia molto più di noi stessi. Il lunghissimo segmento della parte IV in cui Heremias vaga nella foresta, restando per lo più seminascosto dalla vegetazione, sembra volergli negare il ruolo di protagonista: il personaggio non dev'essere il centro del racconto, perché egli è soltanto una piccola parte del "tutto" che lo accoglie, come, d'altronde, lo è ognuno di noi rispetto al mondo circostante. I suoni e le voci provenienti da soggetti non immediatamente, o solo parzialmente, visibili, accrescono il senso della limitatezza della prospettiva individuale, a cui il cinema deve adeguarsi. C'è sempre un "oltre", presente a tutti gli effetti, benché inafferrabile. Le cose continuano ad esistere, anche quando le ignoriamo: ecco perché Diaz indugia tanto sulle parentesi di sonno, di ricerca e di attesa, ed ama assumere il punto di vista, magari scomodo e assai poco panoramico, di Heremias. La sequenza del trip collettivo dei graffitari, nella parte V, con i decisivi contributi dell'atmosfera notturna, della ripresa dal basso e della colonna sonora psichedelica, ha il potere di portare la visione soggettiva alle estreme conseguenze, trascinando lo spettatore in una sorta di incubo allucinatorio, in cui i gesti ed i discorsi sono smozzicati ed incoerenti, e poco si vede, ma molto si immagina: gli echi e le ombre dei giochi perversi sono un vero distillato di depravazione. Il gruppo di vandali, che si ostina a rimanere nello stesso angolo di un rudere di campagna, tra violenze e farneticazioni, dà l'impressione di un vorticoso stallo della mente, sottolineato, per altro, dall'ossessivo accanimento con cui essi prendono i muri a bastonate. Un'ubriacatura di realismo.
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