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Heremias. Primo libro (parti I e II)

Regia di Lav Diaz vedi scheda film

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La recensione su Heremias. Primo libro (parti I e II)

di EightAndHalf
7 stelle

La storia dell'Uomo (dentro la Storia) che divenne Mito (fuori dal Tempo).

 

 

Sine Olivia (Pilipinas) è la scritta che, come d'abitudine, appare all'inizio di un lungometraggio di Lav Diaz, e che come altre volte apre le danze di un altro importantissimo pezzo di Cinema.

 

Una strada, che rompe l'andamento naturale, ondivago e irregolare di un paesaggio. Alcuni carretti lo attraversano con eccezionale lentezza, facendosi spesso superare dai veicoli a motore che, forse spinti da maggiore fretta, marciano a superiore velocità su quel percorso. Sono cinque carri, che da lontano vanno avvicinandosi, e proseguono, lungo l'asfalto che da qualche parte dovrà pur portare. E invece ciò che è importante è che permetta la fuga: le Filippine tutte stanno per essere investite da un tifone di dimensioni colossali, che procurerà ingenti danni all'intera popolazione, se essa non troverà riparo fuori dai confini della zona interessata. Una fuga, dunque, che però non è affannosa benché estenuante: i fuggitivi, alcuni uomini e le loro famiglie, spesso si fermano a mangiare qualcosa, ad accendere un fuoco, ad affrontare il buio di una notte senza stelle. A distinguersi dal gruppo, però, c'è Heremias.

 

 

Già il nome dovrebbe lanciarci qualche messaggio: non possiamo fare a meno di associarlo al termine italiano  "eremita", il che ci spinge a concludere che si tratta di un uomo amante della solitudine, distante dalle consuetudini dei rapporti umani, fuori dalle logiche comuni. Heremias, infatti, decide di prendere un'altra strada, in qualche modo di affrontare di petto le costrizioni di un mondo sulla via dell'Apocalisse, e di decidere lui stesso come gestire il suo destino. Questo minuscolo esserino, nella Totalità indifferente di una Natura immobile e tempestosa, è il motore che aziona la leva di un possibile senso, e irrompe nel Nulla predominante con forza quasi divina, sebbene lenta e fatta essenzialmente di "sguardi" e di "osservazioni". Heremias guarda il mondo e lo affronta di petto, non con il classico bruto furore che si addice agli eroi, ma con la semplicità di un uomo povero e indifeso, forte di una propria autonomia, al prezzo di una ben comprensibile giustificazione. L'azione di Heremias non ha un senso che la muove, non ha una motivazione profonda: è essa stessa creatrice di Senso, la valvola che fa scattare le giunture di una realtà disciolta nel Non Essere, nell'attesa e nell'assenza. La regia di Diaz è eloquente a tal proposito, e lo è in tutta la sua filmografia: la realtà è testarda e crudelmente ferma come la macchina da presa, mai dormiente, sempre presente ma mai intenzionata a intervenire sulle magnifiche sorti e progressive dell'umana stirpe. Non ci può essere ottimismo né pessimismo, non c'è finalismo ma nemmeno casualismo: l'uomo percorre la sua strada, realizza il suo personalissimo viaggio, e Heremias è proprio la realizzazione di un viaggio in cui la narrazione si fa precisa e lineare e la conclusione altrettanto precisa e meno ambigua di quanto potrebbe apparire (senza per questo perdere in valenza filosofica).

 

 

<<Tu vedi tutte queste cose, Heremias? Questa è la mia città. Niente sta avvenendo, niente sta cambiando. Le persone invecchiano, le persone muoiono. E io non voglio invecchiare qui. Non voglio morire qui. L'ho sempre detto, ma sono ancora qui.>> (il poliziotto corrotto a Heremias, a metà pellicola).

 

 

 

La strada è già il primo elemento che rompe la freddezza del paesaggio. L'uomo deve intervenire ad aiutarla. Non è l'imporsi della Civiltà sul Primordiale, quanto piuttosto l'affacciarsi di una possibile direzione in un mondo fatto di vagabondaggi e di vicoli ciechi. Heremias è un uomo che fa il suo compito: direzionarsi e non soccombere alle leggi né di un Creato infido né di una Società collassata, nutrita di ingiustizie e di omertà spaventose. Diaz è anche troppo esplicito al riguardo: le istituzioni non hanno alcuna reale valenza, in queste Filippine (in questo mondo?), <<non c'è governo qui>> (ancora il poliziotto), tutto è immerso in un'inerzia spiazzante, che è la vita vera e propria di un protagonista testimone della Fine. Anche se la Fine c'è sempre stata, e lui si ritrova a poter costruire i pezzi di un Inizio forse mai esistito. E' lui a combattere la realtà, ad osservarla e studiarla (tutta la sequenza in cui origlia i giovani vandali intenzionati a violentare una ragazza), per poi affrontarla sulla base di principi contrari all'assurdo "buon senso" civile: la bontà, la generosità, l'umiltà. Sono i segni di un'Umanità scomparsa o forse mai esistita, i segni di un qualcosa di Divino che mai ha avuto interesse ad intervenire nei fatti dell'uomo. E' così che, in simile spinta rivoluzionaria, Heremias si rivolge verso un'astrazione che lo rende prescindibile dalla Storia, e lo trasforma nella narrazione di un vero e proprio Mito: il semi-dio Heremias, più debole degli altri, sale per la montagna, per procurare una disinteressata salvezza a qualcuno, alla ragazza futura vittima dei vandali. Non sapremo come andrà a finire, ma c'è finalmente qualcosa per cui sospirare, e da non dare troppo per scontato, come quella spinta alla sopravvivenza che costringe l'uomo alla fuga senza un reale motivo, ma solo per un irrazionale istinto quasi perverso. Heremias comincia a percorrere la strada che sale per la montagna, diventa un puntino, diventa LA montagna. Una sequenza finale degna del miglior Kiarostami, e che lascia evincere l'incredibile maestria di un autore (Diaz) come non se ne vedono in giro, sugli schermi di noi uomini, ubriachi di svelte raffiche di Tempo.

 

 

 

E alla fine ciò che è rimasto nella tua memoria sono i nomi che scompaiono, le ombre che appassiscono in un mondo che lascerai alle spalle. Taga Timog.

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