Regia di Neri Parenti vedi scheda film
Dice Fabio Ferzetti sul Messaggero, mi pare, che questo venticinquesimo cinepanettone è l’ennesimo capitolo di transizione nella tradizione filmaurea del prodotto natalizio. Sarà, e forse c’ha anche ragione. La natalata brasiliana è una delle più tristi. Elaborato il lutto boldiano, resta De Sica a mandare avanti la baracca. Aurelio De Laurentiis, che ormai pensa solo al Napoli (e gli va bene, tutto sommato), si affida al pilota automatico di Neri Parenti e infila nel mixer tuttigusti-cafonal i beniamini dei teleidioti, dall’ormai insopportabile Hunziker (imbavagliatela, subito) a quel De Luigi sprecatissimo in troppe occasioni fino al Fremont cesaroneo. Per conferire dignità alla carcassa, si chiamano personaggi altrove seri: questa volta si è richiamato il soccorso rosso del Ghini, che, guarda un po’, sembra divertirsi come un matto. Non giriamoci attorno ancor’oltre. I due episodi del film sono diversi: il filone Hunziker-De Luigi è quanto di più noioso e sciatto possa offrire una commedia che aspira ad essere sentimentale (con spruzzate di demenza puerile); il filone De Sica-Ghini, invece, merita qualche riflessione. Perché credo che sia il risvolto più malinconico, triste, penoso che un cinepanettone abbia mai servito.
Innanzitutto De Sica non c’ha più un’amante, non è fedifrago (ed è una notizia): c’ha n’età, fra un po’ ne son sessanta. Non è un personaggio gradevole, ma meno che mai lo è Ghini, alle prese con un ruolo abbastanza squallido (un professore di etica che maschera la propria volgarità con espressioni colte). Non ha molta fortuna. Qui De Sica è un personaggio patetico, profondamente patetico: ormai attizza solo le grasse donne di colore (“più che in bocca al lupo, in culo alla balena”), le “buzzicozze”, “l’attrezzo” non funziona più come una volta, il figlio lo frega in quanto a furbizia, finisce nella merda delle favelas. Se Ghini riesce a trovare la giusta distanza col suo personaggio, De Sica no: non si estranea dal suo palazzinaro divorziato, se lo porta appresso con una simbiotica tristezza. Non capisce un’acca di ciò che gli dice il furbo Ghini: e il pubblico medio-basso ride perché si riconosce incoscientemente in quell’ignoranza.
Il problema però è che si corre il rischio che il personaggio risucchi De Sica nel turbine dell’ineluttabile pateticità. Almeno per metà, Natale a Rio è un film malinconico perché determina il baratro in cui stiamo finendo: che ci garbi o no, a ballare intorno al buco siamo noi incarnati da De Sica. È un film che, suo malgrado, analizza e attesta la fine dell’età del turpiloquio, accompagnandoci in quella più inquietante della volgarità come stile di vita. Volgare è anche vedere un grande comico come De Sica in panni tanto patetici. Alla fine, con quel mascherare l’effetto speciale, il film si rivela per quel che davvero è: un bluff camuffato da regalo di Natale. Tanto il pubblico non se ne accorge. Ride, si svaga, esce come se niente fosse. Eppure lì, nello schermo, resta De Sica con la sua crisi d’attore e sociale. Il dubbio resta. Ebbene sì, siamo in una nuova era. Tenetevi forte.
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