Regia di Tarsem Singh vedi scheda film
Io credo, con tutto il rispetto, che chi non ama questo film affronta il cinema in maniera troppo analitica e cerebrale. Non vuole o non riesce a farsi trasportare, non ha voglia di cercare, se c'è, un'anima in un film visivamente così impressionante, rimane abbagliato dalla confezione senza nemmeno volere aprire la scatola.
Ma quell'anima c'è.
Perchè questo film è un miracolo.
Recentemente si era parlato di Wes Anderson, dei suoi personaggi e dei suoi mondi, dei suoi colori pastello, della sua inventiva.
Beh, Tarsem Singh allora è un Wes Anderson ancora più estremo.
E riesce nell'impresa di essere ancora più estremo per estetica e caratterizzazione dei personaggi non tralasciando, come per esempio mi succede con Anderson, una forte componente emotiva, una grande capacità di metter cose sotto quei colori debordanti e quelle scene di devastante bellezza visiva.
Ma questo film è un miracolo sotto tanti aspetti.
Basterebbe il prologo con quell'impressionante bianco e nero dal nitore così perfetto che vorresti durasse ancora e ancora. Un prologo che sfida a duello i due di Trier (Antichrist e Melancholia) senza soccombere.
Poi quel bianco e nero diventa colore, un colore come raramente se ne vede al cinema.
E qui si nasconde una delle grandezze di questo film. Perchè quel colore, quei paesaggi mozzafiato, quasi tutta la magnificenza visiva che ci bombarda è puro e VERO cinema, un cinema fatto di luci, inquadrature, location impressionanti, mestiere, senso estetico. Vedi il film e tutto ti sembra talmente bello che quando poi scopri che è tutto vero, quel deserto che sembra un muro arancione intorno ad una distesa bianca, quell'isola che quasi non c'è, quelle scale della disperazione che richiamano Escher dalla quali lei si butta, quella città tutta blu, quell'impressionante anfiteatro di altre scale nel finale, quando scopri che tutti questi luoghi sono veri allora capisci che razza di miracolo è questo film, un film che crea l'effetto speciale con il vero, con la natura, con le costruzioni dell'uomo, un film che oltre ad una ricerca estetica infinita ha avuto occhi che hanno cercato e trovato queste meraviglie. Tarsem non vuole lavorare di effetti visivi perchè questo gioiello omaggia il cinema degli albori (anche direttamente nel finale) e il cinema degli albori è il vero cinema, o il cinema del vero.
Perchè creava finzione con la verità.
Ma su questa magnificenza visiva, credo, concorderà chiunque, anche chi questo film non l'ha fatto suo.
Perchè sequenze come la nuotata dell'elefante, la tela lorda di sangue, la morte dello schiavo steso sulle frecce, e il viso del prete che diventa deserto sono da pelle d'oca.
Poi c'è l'arte del racconto. Non è un caso se questo film mi abbia ricordato infatti Vita di Pi per magnificenza visiva ed esaltazione del racconto. Un Vita di Pi che incontra Il Labirinto del Fauno con quel mondo altro ed immaginario dove rifugiarsi.
E anche qui c'è una piccola magia perchè è sì lui a raccontare ma lei a rendere in immagini il racconto, un gioco di coppia incredibile. E non solo, è un racconto in fieri, modificabile, un racconto che a volte rispecchia le emozioni della bimba ed altre volte è modificato da lei stessa. Sono in due a raccontare, non soltanto lui, due a tenersi compagnia e in vita parlando di schiavi, pirati, banditi, donne perse e magia.
Ed è qui che va capita una cosa, ossia che l'approssimazione del racconto, il suo procedere per sequenze quasi staccate e che prese una ad una sono abbastanza banali non è un difetto ma l'anima stessa del film. Qui non c'è un'incapacità di rendere grande la narrazione come forse avviene con Anderson, qui c'è semmai l'esaltazione, l'esaltazione dell'improvvisazione, del racconto che si fa man mano, del racconto che non esiste di per sè ma si crea in quel momento, del racconto che in qualsiasi momento può diventar altro, che sia una rete per le farfalle che appare al'improvviso, un personaggio che cambia voce, o delle rovine che diventano deserto. E gli stessi personaggi prendono le sembianze di quelli che sono nell'ospedale, perchè Alexandria usa la realtà che la circonda e la sbatte violentemente nell'immaginazione. Il film andrebbe visto due volte, io l'ho fatto,e di seguito, per vedere ogni piccolo gesto, ogni singola frase, ogni personaggio come si incastra nelle due realtà.
L'uomo dei raggi x che diventa archetipo dei soldati nemici, la dentiera del vecchio dalla quale "trae la sua forza" che diventa la dentiera del mistico che una volta perduta non è più nessuno, gli uccelli che escono dalla sua bocca dove li aveva tenuti per preservarli, il ghiaccio, sono decine i rimandi.
Ma, ed è qui che il film costruisce le sue fondamenta sulle quali può permettersi di estetizzare, bisogna capire che questo film non è altro che la straziante ricerca di una figura paterna, il disperato tentativo di colmare quel vuoto, l'assoluta necessità di stare vicino lui e sentirlo raccontare, raccontare e raccontare.
Papà, ad un certo punto lo chiamerà materializzandosi lei stessa nel racconto per non farlo finire, papà gli dirà. Ma non ce n'era bisogno, l'avevamo capito.
E poi alla fine il cinema entra nel cinema e finalmente capiamo la prima scena, quella del prologo, cos'era anche se la rivediamo montata, montata senza la vera e tremenda caduta sostituita da una soffice e morbida che atterra in un cavallo.
Quella caduta, la caduta di lei dall'albero e dalla sedia, ma anche la caduta nella disperazione di lui per non avere lei.
The Fall.
E lui non era che la comparsa, lo stuntman, dell'attore principale, quello che gli aveva rubato il cuore di lei.
Il Governatore.
E poi ci sono Chaplin e Keaton.
Si può chiedere di più ad un finale?
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