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Imago mortis

Regia di Stefano Bessoni vedi scheda film

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La recensione su Imago mortis

di chinaski
4 stelle

Bruno è uno studente di regia presso la scuola internazionale di cinema Murnau. Per caso il ragazzo scopre uno strano apparecchio, un Thanatoscopio, ovvero una sorta di camera oscura in grado di imprimere su una lastra di vetro l’ultima immagine rimasta sulla retina dell’occhio umano prima della morte. Bruno inizia ad investigare sull’origine di questo apparecchio, anche perché ossessionato da inquietanti visioni, fino a portare alla luce verità dimenticate sulla scuola di cinema e sui professori che vi insegnano.
A più di dieci anni di distanza da Tesis di Amenàbar, Stefano Bessoni scrive e dirige un film che si inserisce proprio in quell’insieme di opere, tra il fantastico e l’orrore, che il regista spagnolo ha contribuito a creare e di cui fanno parte anche alcuni lavori di Del Toro, Balaguerò, Bayona. La confezione del prodotto si basa quindi su quegli elementi che hanno fatto la fortuna di queste pellicole in Spagna e nel resto del mondo. Ambienti gotici, storie che mescolano il soprannaturale con il macabro, la presenza del sempre labile confine tra realtà e allucinazione.
Al regista italiano manca però la visionarietà dello sguardo (quasi tutti i momenti in cui l’occhio di Bessoni vuole spaventare o meravigliare lo spettatore, più che sulla potenza dell’immagine, sono costruiti sulla velocità del montaggio) e una adeguata capacità di gestione del materiale narrativo, che rimane chiuso in un intreccio prevedibile. Il film si presenta dunque come un’italica copia delle sperimentazioni iberiche (alla sceneggiatura ha collaborato anche Luis Berdejo), supportata da un buon lavoro tecnico (luci, scenografie, effetti visivi) ma dove il tentativo di appoggiarsi a temi alti (gli studi di Kircher sulla riproducibilità delle immagini) e alla tradizione espressionista del cinema tedesco si infrange contro una messinscena che riesce solo ad illustrare (Bessoni è infatti, prima di tutto, un disegnatore) la sceneggiatura, attraverso immagini che non penetrano mai negli occhi dello spettatore e quindi nel suo inconscio. Questa distanza, causata anche da una perenne sensazione di deja-vu, è il limite che il film si autoimpone, non riuscendo così a trovare nei meccanismi del genere quella libertà che invece in Spagna ha dato vita ad una nuova generazione di cineasti.

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