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Death in the Land of Encantos

Regia di Lav Diaz vedi scheda film

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Badu D Shinya Lynch

Badu D Shinya Lynch

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La recensione su Death in the Land of Encantos

di Badu D Shinya Lynch
10 stelle


The Tree of Death

"Sì, è anche un parallelismo artistico sulla creatività che hanno saputo esprimere questi due popoli, nell'arte, nella letteratura. Ma non i russi come Putin. Perché pensi che abbiano ancora Putin? È uno stronzo, i russi stanno soffrendo per colpa sua. È un fascista e dovrebbero fare qualcosa. Non dovrebbe esserci più spazio per il fascismo nel mondo. È il ventunesimo secolo, perché permettiamo ancora che succeda? Perché tolleriamo queste cose, che la gente soffra per questi personaggi, per questi dittatori?"
- Lav Diaz -

Death in the Land of Encantos è un film monumentale che si interroga sulle sorti del proprio popolo partendo dalla devastazione che ha lasciato il tornado Reming. L'opera di Lav Diaz diventa una riflessione sul tempo e sul ricordo; una pellicola che mostra e analizza, con sguardo sia disincantato che estatico, la rovina sociale, territoriale e mentale delle Filippine. Death in the Land of Encantos parte come una cicatrice, fino a riaprirsi per diventare una ferita abissale. Il film di Lav Diaz è un pugno coscienziale mascherato da cataclisma che sconvolge lo spirito e la terra di questo paese. Death in the Land of Encantos è un ritorno dilatato alla memoria. Una memoria che si prepara ad essere condannata a sopravvivere: la pellicola racconta la vita della morte; la sopravvivenza della reminiscenza dolorosa che rende visibili e tangibili i fantasmi del passato, specchi confidenziali che riflettono una sorta di pazzia, malattia congenita, che ha un'implicita funzione urlante, spronante, che spiana il terreno per un nuovo inizio inteso come rivoluzione. In Death in the Land of Encantos, il passato relativo al pre-maremoto diventa un non-tempo, quasi una dimensione (a)temporale che non esiste più, che non appartiene più al concetto di esistenza, che si distacca dalla funzione evolutiva della popolazione, diventando quindi un tra-passato, un vecchio e parallelo mondo incenerito ma che comunque influisce e sconvolge fortemente il presente. Lav Diaz vuole smuovere le coscienze: racconta lo stallo umano, il disinteresse del sistema governativo filippino di fronte a questa situazione. Chi "detiene il potere" non porta, ad esempio, le lamiere e il legname necessari per la ricostruzione di case e strutture; il ritardo dei soccorsi e degli alimenti; le razioni consegnate in dosi pressoché inesistenti, misere. "Ricorderemo il mondo attraverso il cinema"; quello di Lav Diaz è sicuramente un Cinema politico: il regista filippino usa il mezzo cinematografico come strumento responsabilizzante e responsabilizzato, per parlare della lotta del suo popolo - o meglio, dell'essere umano -, per raccontare la verità. E' un'opera importantissima, dalla funzione educante ed emancipante sia in senso umano che cinematografico. La pellicola narra della calma dopo la tempesta: palesa la mancanza di iniziativa, l'inattività di un disinteressato sistema politico, di come il governo rimane immobile di fronte alle difficoltà più evidenti, opprimendo e stroncando sul nascere ogni tipo di attività artistica, considerando ed etichettando questi esponenti come nullafacenti. Death in the Land of Encantos è quindi anche un atto d'amore verso l'arte, un inno alla sua forza terapeutica e risorgente, necessaria per far sì che possa emergere lo spirito sepolto di questo paese. In una sequenza - tra le migliori del lungometraggio, per chi scrive -, intorno al centoquarantesimo minuto, il vento sembra raccontare (e "urlare") il dolore e la rabbia dei defunti, parlando al posto loro, svelando una silenziosa ma comunicativa disperazione, come se essi non riuscissero a morire del tutto, come fosse un dolente e infinito soprammorire alla vita; infatti quello presente in Death in the Land of Encantos è un malessere reiterato, un disagio che è recidivo, che diventa universalmente politico. Lav Diaz usa il mezzo cinematografico per portare a galla i problemi, per mostrare il fango - istituzionale e territoriale - nel quale sprofondano lentamente l'ideale, il potenziale e la speranza delle Filippine. Un fango che è una sorta di sporco fil rouge che (col)lega quest'opera a Satantango. L'operazione del film-maker è chiara: egli vuole stimolare, incoraggiare lo spirito demoralizzato e destabilizzato di questo paese. Sì, perché la desolazione presente nella pellicola è anche, e soprattutto, una devastazione interiore: un perdere e smarrire l'anima prima ancora di perdere la vita. L'avanzare inesorabile della perdizione fisica - intesa come "naturale", materiale, territoriale - e mentale - cioè personale, esistenziale -. E' un inesorabile Cinema schierato contro il sistema istituzionale e la polizia: quest'ultima è in assoluto contrasto con gli attivisti e gli intellettuali, cioè coloro che vorrebbero seriamente rianimare il paese, ma che vengono sistematicamente soppressi, ammazzati. Chiunque inforchi questo percorso viene torturato - gli si inietta acido nel cervello, gli spezzano le dita, gli infilano un tubo nel deretano, gli vengono applicati gli elettrodi sul pene -, così da spegnere ogni movimento attivo di protesta. Di cosa è morta realmente la madre del protagonista? E' impazzita per cause naturali, o l'hanno portata ad impazzire per poi toglierla di mezzo? Ed è proprio questa "insania familiare" che unisce, o meglio, incatena Benjamin alla madre. Questo è una follia quasi iniziatica, determinante e necessaria: una malattia che nasconde una potente critica al governo filippino, che appunto si manifesta sotto forma di paura e paranoia verso questo disastro climatico, sociale e culturale. Forse è proprio questo disagio che porta allo squilibrio mentale. Il protagonista si sente perseguitato ed inseguito dagli agenti. Il fato vuole che Benjamin sia spacciato, finito. (Pre)Destinato alla pazzia, alla perdizione. Quest'ultima può essere intesa, per assurdo, come uno stato d'animo superiore, indispensabile per comprendere e per "vedere" questa crisi generale - economica, amministrativa, vitale, etc -; un essenziale in(d)izio per lottare contro ciò che affligge la popolazione: la corruzione, in senso lato. Paradossalmente Death in the Land of Encantos si schiera a favore dell'idealismo russo - che sia esso cinematografico, letterario o esistenziale - e contro gli stessi filippini, perché essi sono il popolo "meno asiatico dell'Asia", per il fatto che tendono ad occidentalizzarsi e ad appigliarsi alle religioni occidentali, perché sono i più poveri anche se potrebbero essere i più ricchi per via delle risorse, e inoltre pure per la questione che "sono i più stupidi ma potrebbero essere i più intelligenti". E' un film che vuole esortare l'essere umano - che sia esso spettatore o semplice uomo inconsapevole, cieco -; un'opera che si aggrappa all'apocalisse, alla catastrofe per lanciare un preciso messaggio. Death in the Land of Encantos è una necessaria fine, fondamentale appunto per far emergere un'opprimente e castrante realtà che dovrebbe essere galvanizzante e portatrice di speranza intesa come rinascita, nuova vita. La pellicola di Lav Diaz è un punto di rottura in continua espansione. Un lamento (non solo) culturale di un paese , che cerca di creare un varco tra le macerie. Death in the Land of Encantos è anche un magnifico richiamo all'arte che è parte integrante dell'individuo, che a sua volta adopera come concetto - astratto e/o concreto - integralistico. E' indubbio che sia l'arte a dare l'incanto a queste terre distrutte e logore, ed è quindi opportuno celebrarla, elogiarla, cioè ammettere la sua potenza propulsiva: si parte da una situazione di disagio totale, fino a spingersi, grazie all'arte, per raggiungere l'intento rivoluzionario. Arte che quindi diventa il senso di nuovo auspicio, di uno sguardo (nuovo e rinato) verso il futuro. Death in the Land of Encantos è, insieme a Heremias, la summa politica, filosofica ed e(ste)tica del Cinema Lav Diaz. Le opere del regista filippino sono prive di compromessi e non hanno timore di comunicare direttamente con il pubblico: la schizofrenia paranoide che avvolge la personalità di alcuni personaggi del film, porta a galla una realtà dissimulata, che palesa il vero aspetto disagiato e placidamente infernale delle Filippine. Di conseguenza, si potrebbe concludere dicendo che la perdita della ragione è forse da imputare a chi manovra questo popolo e lo lascia in cattive condizioni, all'incuria più sconvolgente.
La catastrofe, nel male, ha risvegliato e motivato le coscienze. La pazzia è poesia rovesciante: è una nuova strada per un possibile futuro più radioso e luminoso. Un Cinema che è libero e liberante, che è ribellione dalla prima all'ultima sequenza. Nelle riprese di Lav Diaz, ogni stacco è scioccante; è un colpo, una botta per lo spettatore, perché quest'ultimo si immerge, si lascia andare ad ogni interminabile sequenza. Ogni lunghissima scena è una catastrofe a sé stante: ciascuna di esse ha la sua vita e, soprattutto, la sua morte. In ognuna di queste inquadrature inizia e finisce una storia, un'apocalisse personale.

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