Regia di Lav Diaz vedi scheda film
Pochi registi sono in grado di dare forte "coerenza" alla propria opera utilizzando uno stile assolutamente personale, a scapito di minutaggi fuori dall'ordinario. Tra gli esempi maggiori possiamo citare Chantal Akerman con il suo seminale Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles e Béla Tarr, con Sátántángo: due film che hanno contribuito - e non poco - a riscrivere le coordinate stesse di «cinema d'autore». E soprattutto, film che, pur nella loro impressionante durata, riescono a mantenere una lucidità di sguardo unica.
Gli anni Duemila hanno visto l'affermarsi un nuovo regista, il filippino Lav Diav, che, con incredibile talento, sulle tracce dei suoi predecessori, ha rimesso in discussione il concetto stesso di "fine" e di "tempo" di un racconto (filmico).
Con Death in the Land of Encantos ci troviamo di fronte ad un'opera dalla monumentale durata di 9 ore. Eppure, i fatti narrati non sono tanto numerosi da giustificarne una durata così straordinaria. Se poi consideriamo che, come già nel precedente capolavoro Heremias, Lav Diaz non si interessa nemmeno di chiudere (classicamente) il suo racconto, ebbene, ci troviamo difronte a qualcosa di "nuovo", dirompente, che va al di là di qualcunque convenzione cinematografica.
Il film narra la storia del giovane e sensibile poeta filippino Benjamin Agusan, che ritorna nel paese natale dopo un periodo di «esilio volontario» a Parigi, per constatare di persona i danni causati dal tifone Durian.
Il film nasce come un documentario sul disastro filippino - e i molti inserti, come le interviste ai sopravvissuti dell'uragano, ne sono la testimonianza -, ma il regista, nel corso delle riprese, ha deciso di trasformarlo in un film di "finzione".
Il protagonista Benjamin è una figura altamente drammatica, che Diaz utilizza per sferrare un attacco diretto al proprio paese: infatti, il poeta era fuggito a Parigi a causa delle persecuzioni da parte delle autorità filippine, intolleranti agli artisti considerati "di sinistra".
Lav Diaz gira, come di consueto, in bianco e nero (altro topos che lo lega indissolubilmente a Tarr), per piani lunghi o lunghissimi, senza l'ausilio del commento musicale. Alle riprese sui luoghi reali di Bicol (regione in cui è ambientato il film) si alternano spezzoni amatoriali di Parigi, probabili ricordi audiovisivi di Benjamin.
Sconfinando spesso nel contemplativo, ma sempre riuscendo a tenere ben saldo lo sguardo dello spettatore (come ha detto Enrico Ghezzi «ogni stacco, nelle inquadrature di Lav Diaz, è traumatico»), il regista filippino realizza un ennesimo capolavoro di audacia, di stile e di coraggio. Soprattutto in un panorama spesso sterile e standardizzato come quello contemporaneo.
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