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Un lac

Regia di Philippe Grandrieux vedi scheda film

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La recensione su Un lac

di EightAndHalf
9 stelle

Gemere per il piacere o per il dolore, respirare affannando, immergersi nel buio, sfiorare sottopelle i muscoli irrigiditi dal freddo, lavarsi le mani, stringerne una. Un lago, una casa dal duplice aspetto, deforme dentro, semplicissima fuori. Un intreccio fra esseri umani che ripropone le emozioni e le sensazioni primarie, gigantesche e implose, per le quali i contorni delle cose cominciano a perdersi e a sciacquarsi come macchie di colore in un liquido: è il terrore per un qualcosa di imprevisto e imprecisato, le solite dinamiche che muovono gli uomini ma questa volta in un altro luogo, in un altro tempo, questa volta da provare sulla propria pelle. Non ci si sente magari nella pelle di Alexi, ma la si tocca con mano, si riscoprono quei sensi che diamo fin troppo per scontati, e impariamo a conoscere qualcosa vivendo appieno ciò che è immanente e di fronte a noi, un corpo come un volto come un’espressione, nessuna dietrologia. Il buio come la neve come la nebbia isolano le facce e i corpi (vestiti, nudi) non per sezionarli e sadicamente scoprirne gli anfratti, non c’è sete di conoscenza nell’occhio di chi guarda (se è per questo non sembra neanche esserci cinepresa, né sceneggiatura, né studio premeditato); invece le figure risultano isolate solo per avvicinarle e provarne le stesse emozioni, come se a volte vibrassero come fiammelle nel buio.

«The cameraman should also create shadow, that is more important than creating lighting». (F. W. Murnau)

 

 

 

 Come di fronte ad un lago le cui acque tranquille riflettono le cimase innevate di altissimi monti, noi ci vediamo riflessi (ma non “dentro”) gli esseri umani di Un lac, dentro gli uomini e dentro le donne, dentro i bambini e dentro gli adulti, pronti ad assaporare o a soffrire ciò che ciascuno di loro assapora e soffre. Da fuori, coscienti di quello che stiamo facendo e vivendo, ma incapaci di staccare gli occhi e il cuore da quella tela dipinta con colori bruciati e anneriti, o sbiancati violentemente. In un luogo sperduto e dimenticato da tutti (noi compresi, che non arriviamo a conoscerlo), ci ricordiamo di contro di essere, più che sotto lo stesso cielo, dentro la stessa pelle.

 

 

 

Dalla visione di Un lac si esce storditi, come risucchiati da un nuovo vortice di sensazioni, come se le potenzialità del reale si fossero dischiuse dal luogo in cui erano sepolte e avessero fatto capolino sotto le nostre dita, dentro le nostre orecchie, nella luce (o nel buio) dei nostri occhi. Di Un lac si può dire senza ombra di dubbio che si tratta di un film rigenerante e purificante, che trascende l’apparente sperimentalismo di una messa in scena quasi violenta e truce e rivela l’eleganza e la profondissima coscienza umanistica di un occhio di uno come Philippe Grandrieux, che in un’esperienza di pur breve durata ci immerge nelle splendide immediate brutali realtà dei nostri sensi. Traballando, percepiamo delle immagini che ci parlano chiaro e che ci chiedono una risposta concreta, non astratta, dopo l’iniziale sconvolgimento di uno spettatore che capisce di stare vivendo il corpo senza bisogno di nient’altro, neanche di quelle sovrastrutture falsamente concrete e invece astratte. Siamo fuori dal mondo e dentro di noi.

 

 

 

Un lac è una preghiera fatta per chi si è dimenticato di se stesso. Non c’è niente di contemplativo,  Un lac è pura azione, fuori dalle coordinate normali, senza minimalismi o massimalismi, senza pessimismi o ottimismi. Anche i luoghi, nel film di Grandrieux, sono etichette trascurabili di cui si può fare tranquillamente a meno. Ad avere importanza sono i corpi, non solo contratti dall’amplesso o raggelati dal freddo, ma i corpi nelle loro condizioni più normali, più abituali, affiancati dalle pulsioni proprie dello sconvolgimento. Non c’è la prurigine di chi normalmente racconta una storia semi-incestuosa, non c’è interesse, non c’è arroganza. E’ un’immagine ripulita, nonostante la si veda opaca. E’ scoprire la potenzialità del contatto umano fuori da qualsiasi senso di solitudine (che ci ricorda in alcune immagini lo sgranato effettistico di Secondo cerchio di Aleksandr Sokurov) o da qualsiasi senso di angoscia – Hege e Jurgen che si baciano sono ombre cinesi che si risucchiano come nel Bacio di Edvard Munch, ma non c’è il timore di dissolversi e perdersi.

 

 

 

Un lac è vivere, e farlo attraverso la forma filmica. Sicuramente è una pellicola che merita svariate visioni per introiettare nella propria mente tutte le giuste sensazioni, forse tentare di immagazzinarle. Ma la prima visione è come il primo traslucido abbozzo di un pensiero, e nella sua indeterminatezza forse è la più preziosa. A volte per scoprire l’altro basta guardare.

 

 

 

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