Regia di Philippe Grandrieux vedi scheda film
In un luogo innevato e imprecisato, Alexi ama la sorella Hege. L’arrivo di uno straniero, Jurgen, cambierà le cose.
«La forza del cinema è questa, farci vivere un mondo così come il sognatore vive il proprio sogno: attraversare l'immagine» (Philippe Grandrieux)
Presentato a Venezia 65 nella sezione Orizzonti, Un lac arriva nella filmografia di Philippe Grandrieux dopo gli scandali di Sombre e La Vie nouvelle, sorprendendo un po' tutti, critica in primis, grazie alla linearità dello script (del regista stesso), che per la prima volta fa a meno della violenza e delle situazioni scioccanti. Eppure Un lac rimane un film-limite perturbante, sperimentale e teorico, impossibile da collocare nel panorama cinematografico attuale: distribuito poco e male, anche in Francia, nonostante il consenso riscosso nei circuiti festivalieri, il film, profondamente grandrieuxiano, strapazza la grammatica filmica tradizionale per penetrare direttamente il mondo delle sensazioni, con la medesima violenza formale de La Vie nouvelle. I rimandi ai due film precedenti si sprecano: la storia che Grandrieux racconta è sempre la stessa, l'ossessione d'amour fou, impossibile e incestuoso, ma in Un lac la traccia narrativa è soltanto accennata. Grandrieux stringe il racconto, lo comprime; riduce i personaggi, lo spazio filmico, i luoghi, le azioni; si dedica egli stesso alla ripresa delle immagini, con una videocamera leggera che gli garantisce un rapporto fisico, di immediata vicinanza, con gli attori e il set. L'attenzione dello spettatore si focalizza allora sulle sensazioni, sugli effetti visivi e sonori: ovvero su tutti quegli elementi specificatamente filmici, elementi che fanno di Un lac un vero e proprio atto d'amore per la forma cinematografica, un film intimo e universale al tempo stesso, il più maturo e brakhagiano di Grandrieux.
Proprio in virtù dell'attenzione che rivolge alla grammatica filmica, Un lac merita la definizione di film teorico. Ma forse sarebbe più esatto scrivere che è un film che pensa (e rappresenta) il mondo attraverso la forma del cinema: un'esperienza sensoriale estrema che poggia su una (non) narrazione di limpida semplicità, e su immagini e suoni che rifiutano le convenzioni dei film tradizionali. Sì, quello di Grandrieux è un progetto estetico radicale, rischiosissimo, ma non autistico: ogni scelta è necessaria. Il risultato infatti è un fortissimo coinvolgimento emozionale dello spettatore: e il merito è della diretta semplicità della storia che il regista ha scelto di raccontare, vero e proprio punto di forza di un film come Un lac, punto di forza paradossale se si pensa che il film di Grandrieux è prima di tutto un'esperienza estetica, un esercizio purificante di contemplazione.
La cosa però non deve sorprendere: perché era solo partendo da presupposti così essenziali che Grandrieux poteva arrivare a dare tanta credibilità e concretezza a un sentire lontanissimo dalla modernità, eppure di tutti noi. Un sentire arcaico, sfaccettato e profondo, primitivo e intenso – un sentimento nel quale convivono, miracolosamente, colpa e innocenza, noia e stupore, tristezza e gioia. Un lac non racconta che questo, le emozioni contrastanti e immutabili che scaturiscono dalla scoperta dell'Altro: guardarlo vuol dire fissare l'oscurità, e rimanerne accecati.
«Bisogna che un film possa essere assorbito senza essere costretti a guardarlo. Stare al cinema, chiudere gli occhi e sentirlo, accogliere il cuore vibrante del film» (Philippe Grandrieux).
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