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Giallo/Argento

Regia di Dario Argento vedi scheda film

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La recensione su Giallo/Argento

di scapigliato
2 stelle

Dove si può collocare Giallo nella filmografia di Dario Argento? Sicuramente parecchi passi indietro a Jennifer, Pelts e Nonhosonno. Se i tentativi di teorizzare una nuova, sconosciuta e per il momento incomprensibile nuova estetica argentiana si fermano a La Terza Madre, con Giallo di dubbi non ce ne sono più. Non bastano gli sceneggiatori americani. Non basta l’alto budget a disposizione. Non basta il premio Oscar Adrian Brody. Giallo conferma lo stato di crisi del Maestro. Chi vi scrive è partitario di quelli che indicano come ultima grande opera argentiana, appunto, Opera, dilatando i fasti del miglior Dario Argento anche al successivo Gatto Nero, episodio di Due Occhi Diabolici in tandem con George A. Romero. Siamo nel 1990. Inizia un decennio di crisi per il genere horror, rinverdito solo dalla geniale trilogia di Scream, per altro lamentata dalla stesso Argento come cattivo esempio di genere orrorifico, ma affondato dalle opere figlie della formula  craveiana. Bisogna aspettare il nuovo millennio per ritrovare una linfa per l’horror che non passa più attraverso icone mostruose come l’uomo lupo, il vampiro o gli assassini metafisici alla Michael Myers e soci, bensì attraverso la lente deformante dello showing. Dal modus reality, dallo spy-cam, dalla pluri-riproduzione delle immagini alla sua evoluzione estrema, il torture-porn, l’horror degli anni 2000 ha trovato nuove ispirazioni, nuovi registi, ma anche vecchi maestri che hanno saputo continuare la propria autorialità. Dario Argento no.

Già con La Sindrome di Stendhal si avvertiva l’incubo dell’estetica televisiva, oggi per altro imperante anche nel main-stream, e con Il Cartaio l’incubo è diventato realtà. Sceneggiature patetiche, dialoghi imbarazzanti, qualche guizzo registico in due o massimo tre scene non di più, scarsa partecipazione degli attori inguardabili – si salva solo Elio Germano in Ti Piace Hitchock? – una messa in scena e una realizzazione filmica puerili, per non dire dei doppiaggi che sono diventati uno degli aspetti peggiori dei film di Dario Argento. Oggi, con Giallo, tutto si ripete. Ad una cura abbastanza cinematografica degli ambienti, dei personaggi e della vicenda in generale, fa riscontro una resa bassa degli stessi. Tralasciamo il grottesco non voluto con il personaggio di Giallo, questo serial-killer il cui lato ridicolo non è tanto l’itterizia che in molti hanno trovato ridicola, quanto tutto l’impianto definitorio del personaggio. Ha una sua storia, certo, se no non ci sarebbe stata nemmeno una sceneggiatura, ma questo è il cinema e il cinema non vive sulla carta scritta ma vive di immagini in movimento. Il maniaco omicida è interpretato con rozza capacità interpretativa, non tanto per il patetico gioco stanislaschiano dell’autoimmedesimazione – io sono attore e non credo a questo procedimento – che qui chiaramente non c’è, quanto piuttosto ad una assenza di consapevolezza del gesto, elemento che distingue non tanto un grande attore da un piccolo attore, ma un attore dal resto del mondo.

Le combinazioni modulari sono affettate e servono solo a trascinare la storia. Chi si intende di narrativa sa che è il conflitto a portare avanti l’azione e non a trascinarla di peso. Il conflitto chiaramente c’è, sulla carta, ma nella realtà filmica le modulazioni narrative non hanno carattere, non sono luoghi narrativi che diventano momenti dell’immaginario, e la loro sterilità non è voluta autorialmente, non sono quindi delle auspicabili scene a sé stanti indicanti l’atomizzazione e l’impossibilità narrativa dialetticamente possibile con il post-modernismo. Sono veri inciampi autoriali. Non sono nemmeno errori o lacune. Sono pressapochismi belli e buoni. Giustapposti l’uno all’altro non fanno un film, ma fanno un episodio televisivo da fiction italiana.

Purtroppo il discorso non cambia con l’apporto più diretto del regista. La direzione è quella che è, scialba e poco curata, ma è soprattutto lo sguardo a farci capire la crisi del momento argentiano. Non c’è nessun commento da parte sua a ciò che dirige. Non basta la sua Torino o i ricordi di un’infazia orrenda e di una madre assente a fare “dario argento”. Questi sono elementi. E gli elementi vanno guardati. É quindi lo sguardo a fare l’autore. Sguardo che qui non c’è se non in un piccolo veloce abbaglio. Il flashback della macelleria è nella sua brevità un racconto a sé con una sua compattezza e un suo stile. Per il resto, è tutto sbagliato. E non conosco la cura.

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