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Inland - Retroterra

Regia di Tariq Teguia vedi scheda film

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La recensione su Inland - Retroterra

di ed wood
8 stelle

“Inland” è un nitido esempio di quello che oggi si tende a definire “cinema contemplativo”. Ritmi blandi, pochi dialoghi, sceneggiature esili. Inquadrature immobili e piano-sequenza come sintassi prediletta. L’algerino Teguia offre una personale versione di tale modello espressivo, servendosi soprattutto di un paio di espedienti, oggi parzialmente in disuso: il campo lungo e la panoramica. “Inland” è un film che sa restituire il senso di uno paesaggio (naturale, edilizio, animale, umano) come pochi altri, grazie ad una magistrale cura del dettaglio, ad una fotografia versatile, ad una sapiente scelta di angolazioni e composizione interna dell’inquadratura. Si rimane catturati e un po’ straniati da questa Algeria che passa di scenario in scenario: brullo deserto, modesti rilievi montuosi, verdi vallate percorse da greggi, scenari suggestivi spesso violati significativamente da trivelle petrolifere, pompe di benzina e altri squallori architettonici. Dagli immensi, freddi e desolati spazi esterni si passa alla claustrofobica miseria di uffici aziendali ed istituzionali, umili empori di beni di prima necessità, fino ad inospitali roulotte.

 

 

 

 

 

 

La topografia non è quindi solo il mestiere del protagonista, ma anche quella dello stesso regista (c’è una scena in cui Malek guarda nella sua fotocamera posta sul trepiedi, e per un attimo pare quasi l’alter-ego di Teguia!), che esplora gli spazi circostanti, lasciando fare la stessa cosa allo spettatore. I tumulti, le rivolte, gli esodi, il Terrore paiono lontani: si percepiscono, invisibili, nella consapevolezza della presenza di campi minati, e si incontrano, inaspettatamente, in un viaggio verso il centro della città (bellissima sequenza di teppismo ripreso “in soggettiva”). Fino a quando la vita di una profuga non entra, si soppiatto, al buio, in quella di Malek, costringendolo a rischiare il posto di lavoro. Alternandoli agli affanni di questa storia di quotidiana e laconica solidarietà, Teguia ci mostra i vacui discorsi dell’intellighenzia progressista: la loro distanza dal reale è impietosamente resa dal montaggio. D’altra parte, non c’è spazio in “Inland” per la retorica, per gli slogan, per le chiacchiere, ma solo per i gesti, per le azioni. E per il cinema, ossia per la manipolazione dello sguardo. Accecanti sovraesposizioni si alternano abilmente a chiaroscuri, figure umane tagliate e soggettive dal finestrino dell’auto si danno il cambio in una staffetta di codici espressivi; il dato realista di fondo viene talora trasfigurato da colorazioni giallognole e da deformazioni indotte dall'uso saltuario della macchina a mano, mentre la figura umana diventa un inerte eppure vivo complemento del paesaggio. La risultante di tutte queste suggestioni si traduce in una specie di avvincente ibrido tra Kiarostami, Gitai e Sokurov. Un cinema di ricerca metafisica e di sottotesto morale; un affresco di immagini da osservare e da “sentire”; un discorso politico che emerge costantemente fra le pieghe di una stimolante rappresentazione figurativa.

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