Regia di Oded Davidoff vedi scheda film
Il fatto che Qualcuno con cui correre è tratto dall’interessantissimo romanzo di David Grossman, scrittore sotto contratto, in Italia, con Mondadori, non significa che il film è garantito come prodotto artisticamente valido. Anzi, fra l’opera del regista israeliano, Oled Davidoff, qui al suo secondo lungometraggio, e lo scrittore non c’è nulla in comune, soprattutto in ordine al fatto che, se lo scrittore ha uno stile tutto suo, ormai abbastanza collaudato e omaggiato, quello del regista, invece, è ancora in atto. Infatti, il film di Davidoff è un insieme ancora indefinito di stili, ma un’ottima prova di girato: il film è molto ben girato. E se questo è il suo pregio, alla fine, risulta anche il suo maggior difetto, poiché ogni mezzo o strumento utilizzato, nell’ambito del cinema, ma non solo in esso, va assolutamente giustificato: tutto acquisisce importanza e giusto senso. Tant’è che alla fine, ripensando al film, ci si chiede il perché dell’uso frequente di obiettivi grandangolari che deformano la porzione di realtà raffigurata, a che pro l’utilizzo delle accelerazioni e della macchina a mano, l’uso di sequenze dal gusto puramente documentaristico, fino all’appesantimento dell’intreccio narrativo. L’impressione è che il regista si sia lasciato prendere la mano dai virtuosismi linguistici, non avendo affatto al centro della sua attenzione proprio l’essenziale: il racconto. L’estetismo rockettaro del “giovane è figo e bello” è ciò che maggiormente emerge dalla storia di Assaf, un giovane che prende in affido un cane di nome Dinka. Il suo scopo è quello di rintracciare una ragazzina di sedici anni, Tamar, che era la padrona del cane e che poco tempo prima era rimasta vittima di una banda di sfruttatori, in grado di gestire il racket dei cantanti di strada di Gerusalemme. Proprio lungo le strade di Gerusalemme si evolve l’affannosa ricerca di Tamar da parte di Assaf.
Tutti corrono nel film: corre Assaf, corre Tamar e corre Shay. Per chi ha letto l’ottimo romanzo di Grossman, può comprendere appieno il valore anche metaforico della corsa da una città, Gerusalemme, che si potrebbe pensare tra le più oneste e sante (ma come si fa a dimenticare quanto accade proprio in questi giorni tra cristiani e ortodossi, anche in luoghi di culto e durante le celebrazioni?), ma ch’è popolata da tanto malcontento, soprattutto quello che appartiene alle giovani generazioni. Tutto ciò dal film emerge, appare, ma manca l’analisi, le motivazioni e l’origine dei mali. Dall’inizio alla fine è evidente che il regista è interessato allo stereotipo sentimental-romantico (alcuni dialoghi risultano imbarazzanti), e poco propenso a raccontarci la componente sociale, dalla quale lo spettatore avrebbe attinto una maggiore compartecipazione, rispetto a ciò che accade ai protagonisti. Avrebbe reso meglio quello che bene emerge dal romanzo: che anche a Gerusalemme tutti sono alla ricerca di qualcosa o qualcuno, ma soprattutto che la cosa più difficile é trovarsi.
Nonostante le avventure negative del film (in Italia è ora in programmazione, a due anni di distanza dall’uscita nelle altre parti del mondo) avessero creato un’attesa, ancor più fomentata dalle notizie quotidiane che ci provengono proprio dalla città di Gerusalemme, il flop è evidente. E con ciò lo spettatore sprovveduto deve fare i conti. Per poi trovare anch’esso una possibile via di fuga.
Giancarlo Visitilli
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