Regia di Philipp Stölzl vedi scheda film
Quello che spinge alcuni uomini a compiere imprese che potrebbero costare loro la vita è, ai più, del tutto ignoto. Spesso è più facile considerare folli questi uomini piuttosto che cercare di comprendere. Certamente chi intraprende un'azione del genere (come la scalata della parete nord dell'Eiger, per di più negli anni '30, con attrezzature rudimentali), se non è un avventato o un temerario, sa quello che può succedergli e sa quello che il suo corpo e la sua mente possono sopportare. Sa quante ore di allenamento ha macinato, sa quanti sacrifici ha dovuto mettere in conto, sa quello che può perdere. Evidentemente sul piatto della bilancia mentale che le persone ragionevoli consultano sempre prima di intraprendere qualcosa, il lato che porta all'impresa pesa di più di quello della rinuncia e della sicurezza. Non c'è nulla di suicida in questo e i veri sportivi non mirano certo a lasciarci la pelle, anzi; tornare a casa è spesso il movente principale che porta a termine le avventure più estreme (venendo da una famiglia di sportivi di questa categoria posso dire di saperne qualcosa). Vivere un'esperienza estrema, consapevoli delle proprie possibilità, giocandosi le proprie carte al meglio, può solo aumentare la capacità di un uomo nel dar valore alle cose. Purtroppo qualche volta, come nel caso dei protagonisti di Nordwand, la natura, la mancanza di mezzi e la sfortuna creano congiunture che un uomo non può combattere. La natura è indifferente e, se si prende questo come assunto, non ci sono colpevoli, ma solo la tragedia silenziosa che spetta a tutti prima o poi. Il dolore sarà incolmabile, ma la vita sarà stata vissuta e apprezzata nel pieno delle sue possibilità. Il regista di Nordwand si mostra abile nel mettere inscena tutti gli aspetti di una tale situazione, senza enfatizzare o mitizzare alcunchè. La storia è vera: quattro alpinisti, di due cordate differenti (una austriaca, l'altra tedesca), spinti in parte dall'incessante propaganta nazista e in parte dalla passione per le scalate, tentano l'ascesa della parete nord dell'Eiger, all'epoca inesplorata. Uno degli austriaci rimarrà ferito gravemente: a questo punto sia il suo compagno, sia gli avversari, decidono di scendere a valle nel tentativo di salvargli la vita. Il disinteresse successivo alla notizia dei media (che vedono nella discesa una resa, senza minimamente comprendere cosa voglia dire scalare una montagna e rendersi conto di non potercela fare) e le condizioni estreme lasciano nella solitune più assoluta i quattro, fino ai tragici sviluppi successivi. Nel montaggio alternato, lungo quasi tutto il film, tra le cene dei giornalisti e della società hitleriana che vede nello sport una metafora delle conquiste naziste (e in questo gli scalatori sono paragonabili in tutto e per tutto a soldati mandati a morte) e tra la dura scalata di ghiaccio e sangue dei giovani dall'altra parte, risiede tutto il divario tra la teoria e la pratica, tra l'interesse e la passione, tra la parvenza di vita e la vita vera e propria (e la morte, in quanto parte di essa). Nordwand forse non aggiunge nulla di nuovo a livello cinematografico, col suo stile sobrio e trasparente solo come quello di un certo cinema che fu; d'altro canto recupera la capacità di raccontare una storia senza cedere allo spettacolo gratutito e senza vendersi alla logica del mercato. Questo è anche un film sull'ironia della Storia: i quattro alpinisti, pur senza interessarsi minimamente di politica, divennero dei miti per il reich, che li usò come simbolo del sacrificio in nome della conquista. Non un film eccellente (non un Herzog tanto per intenderci), ma intenso e doloroso quanto basta per esser memorabile.
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