Regia di Semih Kaplanoglu vedi scheda film
La vita che non vuole crescere, in un film che è esso stesso molto, troppo acerbo. L’esistenza del ventenne Yusuf e di sua madre si nutre ancora di latte: di quello prodotto dalle loro mucche, trasformato in formaggio e venduto su una bancarella del mercato, oppure imbottigliato in casa e distribuito porta a porta. Il ragazzo è un aspirante poeta pieno di inutili illusioni, che sarà riformato dal servizio militare perché epilettico; la donna è un personaggio evidentemente debole, che smette di provvedere ai bisogni del figlio nel momento in cui intraprende una relazione col capostazione. In questa storia, come negli scenari circostanti, c’è tutto lo squallore della provincia turca, tra disoccupazione, solitudine e dissesto urbano. Ma c’è anche un maldestro eccesso di silenzio ed un inopportuno uso di effetti simbolici, che sono la palese manifestazione di un’ambizione non adeguatamente supportata dalle necessarie capacità tecniche. A lungo andare, davvero stanca questa incessante ricerca di rarefatta autorialità, che finisce, purtroppo, per tradursi in una pretenziosa versione della noia, con qualche involontaria incursione nel kitsch. La reticenza è una posa innaturale, e le metafore sono come corpi estranei appiccicati a viva forza su una superficie impermeabile a qualsiasi suggestione. Il tutto appare intriso di una mediocrità che è certo nella sostanza dei fatti rappresentati, ma alla quale la regia resta completamente, e colpevolmente, supina. Lo sguardo dello spettatore rimane disorientato dalla mancanza di punti di appoggio, in un approccio all’immagine cinematografica che appare privo di qualunque preoccupazione di carattere estetico o espressivo. A ciò si aggiunge un leggero imbarazzo nel non riuscire a distinguere quanta parte di quello sfacelo sia imputabile ai personaggi che non sanno vivere, e quanta all’autore che non sa farli esistere. Süt inizia con un goffo tentativo di imitazione della nouvelle vague, per poi azzardare una serie di temerarie allusioni alle atmosfere di Michelangelo Antonioni e di Aleksandr Sokurov. Le intenzioni sono buone, la trama e la sceneggiatura lo sono un po’ meno, mentre la messa in scena galoppa, spavalda, e incurante di tutto, attraverso il terreno minato dell’Arte.
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