Regia di Darren Aronofsky vedi scheda film
Ci avrei giurato che questo film non mi avrebbe deluso. Sapevo esattamente cosa avrei visto, conoscevo in anticipo la vicenda ed immaginavo ciò che poi le dinamiche della storia hanno ampiamente mantenuto: eppure sono uscito dalla sala entusiasta, forse addirittura esaltato. Sì, perchè questo è un film che, pur non raccontando nulla di nuovo se non l'ennesima parabola discendente di un campione sportivo in fase calante e dunque ormai "fuori mercato", tuttavia è una pellicola che tocca nello spettatore determinate corde emotive in modo tale che è impossibile opporvi resistenza. E' uno di quei film che racchiudono una "magìa", un qualcosa che contribuisce a creare una "atmosfera" che ti prende in ostaggio fin dalle prime inquadrature e poi non ti lascia più. Il film pare costruito sulla misura del suo protagonista che, lo possiamo affermare senza timore, è uno di quei personaggi destinati ad entrare nella storia del cinema contemporaneo. Ciò che è singolare, infatti, è la piena osmosi riscontrabile fra il personaggio (Randy) e l'attore che ne veste i panni (un superbo Mickey Rourke). Raramente al cinema s'era vista tanta aderenza tra un personaggio e il suo interprete. La vicenda umana e professionale di Rourke ci è nota; ma nella sua sfortuna Mickey ha avuto una piccola grande fortuna, quella di incrociare il proprio destino con quello del talentoso regista americano Darren Aronofsky, il quale è riuscito nel miracolo di trasformare un uomo (e un artista) sul viale del tramonto in un attore capace, come in un potentissimo colpo di coda, di offrire una performance assolutamente memorabile. Personalmente, avevo conosciuto i fasti del Rourke divo sbruffone e quasi prepotente, vizioso e balordo, che, secondo la peggiore tradizione hollywoodiana e secondo i fin troppo noiosi clichè autodistruttivi che essa prevede, era puntualmente caduto nella polvere senza più rialzarsi. M'era giunta voce che s'era rifugiato nell'agonismo pugilistico, ma sono rimasto senza parole quando, pochi mesi or sono, mi sono imbattuto su internet in alcune immagini che ritraevano Rourke così com'è ora: una pietosa maschera di devastazione, un viso sfigurato da chissà cosa. Eppure, quel volto rovinato emanava un inconsueto senso di tenerezza,
perchè parlava da solo, comunicando lo spaesamento e la solitudine di uomo. Un uomo che ha trovato adesso il suo riscatto pieno e completo e che ha ottenuto, attraverso questa interpretazione indimenticabile, una rivalsa di cui andare più che fiero. Ma in questa svolta quasi "edificante" c'è un'ombra triste, un episodio che grida vendetta ed evoca vergogna. Mi sto riferendo alla recente mancata attribuzione dell'Oscar a Rourke. Questa è una ferita irreversibile, che pressochè tutti gli appassionati di cinema hanno incassato con rabbia ed amarezza. Sì, perchè, pur avendo tutti noi apprezzato la straordinaria performance di Sean Penn in "Milk", tuttavia c'è un ragionamento semplice che anche un bambino saprebbe fare: Penn avrà tempo e modo, negli anni a venire, di portarsi a casa un'altra decina di Oscar (e lo farà, bravo com'è), mentre Rourke è un uomo malato e ferito che meritava, ADESSO, QUI ED ORA, questo riconoscimento. I Signori dell'Academy possibile non abbiano riflettuto sul fatto che per Rourke questo è un treno che probabilmente non ripasserà MAI PIU'??!! Questa considerazione, così evidente nella sua ovvietà, prescinde dai singoli giudizi comparativi tra Rourke e Penn (giudizi che comunque -per quanto mi riguarda e limitatamente ai due film in gara- vedono prevalere Rourke). La vicenda raccontata nel film è quella di un ex campione di wrestling che vede progressivamente calare le proprie quotazioni (e con esse i valori e le certezze consuete -anche economiche- di ogni giorno). Sopraggiunti problemi cardiaci e riflessi che non sono più quelli di un ragazzino, fanno di Randy un vecchio arnese che il mercato respinge. E' facile intuire,a questo punto, quali sussulti di dignità e quali impeti di orgoglio tale deriva riesca a smuovere in un vecchio campione abituato ai tributi delle folle. Un uomo che si batte come un leone contro un destino che gli pone davanti ogni sorta di ostacoli, fra cui il più insopportabile da sostenere è l'ostilità della giovane figlia. Quest'uomo grande e grosso, con questo corpaccione solcato da cicatrici, tagli e ferite quasi fosse una mappa geografica disseminata di nomi di città, induce una infinita tenerezza quando lo vedi inforcare impacciato gli occhiali per leggere, oppure quando chiama un bambino del vicinato a casa sua per giocarci ai videogames perchè si sente dannatamente e fottutamente solo. Ovvio che un uomo giunto a questa deriva si attacca a tutto quello che trova sul suo cammino. E la sola cosa che gli resta è la figlia che però -come accennavo prima- non ne vuole più sapere di lui, avendolo bollato irreversibilmente come padre-fantasma e uomo del tutto inaffidabile. E allora il nostro Randy indirizza tutto il sentimento che ha nel cuore verso un'unica persona, Cassidy, una spogliarellista che però nei confronti di lui ha un atteggiamento mai del tutto chiaro, mostra simpatìa ma sempre velata da uno strato di diffidenza. Il problema vero è che Cassidy, esattamente come Randy, è una perdente, un'altra persona verso la quale la vita non è mai stata generosa, e d'altra parte se si riduce a vendere in penombra lo spettacolo triste del suo corpo nudo in locali squallidi, tanto felice e realizzata non deve proprio essere. Tuttavia, agli occhi sinceri e un pò ingenui di Randy, lei appare come una meravigliosa e salvifica fatina. Vediamo poi scorrere, in un tripudio di sottofondi musicali hard-rock ed heavy-metal (perfino i Guns'n'Roses!), tutto un mondo (che prima d'ora conoscevo molto poco) che è quello del wrestling, qui descritto in tutto il suo sottobosco più o meno dignitoso (a dire il vero triste e ben poco dignitoso), e tutta un'umanità di atleti, faccendieri vari o semplici fans, che, personalmente, mi ha indotto una gran tristezza. Accennavo di recente, in un'altra recensione, alla mia predilezione per un cinema che alla fine ti lascia dentro qualcosa. Beh, questo film mi ha regalato immagini che hanno già trovato un posto nel mio immaginario cinematografico. Dal clima miserabile ed opprimente dei locali in cui Cassidy si esibisce, fino al bancone di supermercato dove Randy lavora vendendo carne a insopportabili vecchiette e a bellimbusti impiccioni (le scene con Randy dietro al bancone sono da antologia!!). Ma i momenti più delicati sono quelli dei dialoghi fra Randy e Cassidy: è bellissimo osservare l'incrociarsi dei loro sguardi, l'atteggiamento trattenuto di chi vorrebbe ma non può (di lei) e i modi da bambino che ha trovato una mamma (di lui). Lascio ai critici paludati e a chi se ne intende davvero tutte le metafore sull'America di oggi: io ho visto solo un animale ferito, un vecchio leone spelacchiato che ruggisce stringendo fra i denti gli ultimi brandelli di dignità, circondato da avvoltoi che stanno per divorarne i resti, vale a dire un destino che a tutti i costi lo vuole vedere col capo chinato. Sarebbe imperdonabile, oltre che ingiusto, non citare una intensa Evan Rachel Wood che, dai tempi in cui debuttò come tredicenne acerba, ne ha fatta di strada ed è oggi una magnifica attrice. E, naturalmente, una splendida Marisa Tomei riguardo alla quale (bravura a parte) mi chiedo ogni volta (sollecitato anche da una marcata attitudine a denudarsi nei suoi ultimi film) come diavolo fa costei, a 45 anni suonati, ad esibire sempre il corpo di una ventenne. Quando si accendono le luci in sala non andate via di corsa: vedere questo film per poi perdersi la struggente ballad acustica di Bruce Springsteen sui titoli di coda equivarrebbe ad un delitto, anzi un crimine! E per concludere, uno di quei finali sentimentali che già mi hanno esposto più volte al ridicolo. Mi piace l'idea di chiudere questa recensione immaginando di avere di fronte a me proprio Randy: lo abbraccerei fraternamente e poi lo accompagnerei al bar per offrirgli una birra.
Voto: 10
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