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I Come with the Rain

Regia di Anh Hung Tran vedi scheda film

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La recensione su I Come with the Rain

di scapigliato
10 stelle

La visionarietà del regista Tràn Anh Hùng in I Come With the Rain è strettamente funzionale alla follia dei suoi personaggi. Una delle migliori performance, se non la più estrema di tutte, del bronsoniano Josh Hartnett. Un film difficile, sia da concepire, realizzare, interpretare e pure guardare. Ma per questo la sfida della visione della non-narrazione diventa la vittoria della forma sul contenuto, senza lasciare quest’ultimo in qualche remoto angolo del testo. Infatti, il film di produzione francese ma ambientato e girato tra Los Angeles, Mindanao e Hong Kong, non solo colpisce nella composizione, ma centra assolutamente l’obiettivo di raccontare la discesa infernale dei suoi protagonisti, in particolare quella del private eye Josh Hartnett.

Il suo Kline è un detective privato ingaggiato da un potente capo di una multinazionale farmaceutica per ritrovare l’instabile figlio Shitao. Da Los Angeles parte per l’estremo oriente e, prima nella giungla equatoriale poi in quella metropolitana, perso nel labirintico intreccio di anonimati architettonici e umani, nella ricerca di Shitao, Kline perde se stesso. Il delirio, nato già tempo fa durante la caccia e la cattura di un serial killer boschiano interpretato da Elias Koteas, s’impossessa di nuovo della mente del giovane detective e spazza via di colpo ogni riferimento plausibile e ordinario catapultandolo in una storia di visioni, sdoppiamenti e massacri della propria carne in quello che è un neo-noir dalle forte contaminazioni orrorifiche più che thrilling.

Ad aiutare questa solo apparente confusione di piani narrativi, sono le più storie che vengono trascinate con forza, in senso positivo, appassionante e veemente dal regista, in cui vediamo non solo il detective cercare Shitao, ma lo Shitao vivere i suoi personali incubi dovuti ad una non spiegata patologia stigmatica che gli apre, nel dolore, ferite orribili nel corpo senza ucciderlo. La sua storia di dolore e solitudine s’intreccia con quella della bella femme fatale del boss di città. Lei, eroinomane senza scampo, viene salvata e guarita da Shitao nella sua baracca ai confini della metropoli, in un non-luogo azzeccatissimo dove urbe e giungla si incontrano, intrecciano e si confondono. Automaticamente, queste storie si incontrano e scontrano con quella del poliziotto mindanaense, amico di Hartnett, che è in lotta con il boss locale. Il delirio si fa ancora più acuto quando le varie vicende, ognuna sviluppata con autonomia, giungono ai loro specifici climax debordando il già debole livello di contenimento dell’accettabile.

Un incubo ad occhi aperti, dove non bisogna chiedersi nulla e dove i presunti buchi di sceneggiatura, o anche i surplus di sceneggiatura - vedi la scena, velocissima, in cui Hartnett ricoverato in qualche imprecisato ospedale psichiatrico s’ammazza tagliandosi la gola: prolessi? Delirio? Realtà parallela? Scena tagliata e caduta per sbaglio nel montaggio? - sono tutti volti a deflagrare la percezione visiva ed emotiva de film, intenzione ultima dell’autore pienamente riuscita.

Performance straordinaria di Hartnett, uno dei più capaci attori della sua/nostra generazione, che supera il già personaggio cult di Slevin - Patto Criminale (2006) per quella che è ad oggi la sua interpretazione più estrema e allo stesso tempo più riuscita. Il bronsoniano Hartnett possiede due piccoli e stretti occhi liquidi e scuri incastonati su quel volto di pietra che raramente si lascia andare a gigionerie e sentimentalismi vari - non sempre con lo stesso successo - e che gli permettono, occhi, volto e fisico, di essere segno prima che attore, di essere maschera e archetipo in luogo di camaleontico performer. E questo credo sia un valore aggiunto, per pochi attori.

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