Regia di David Fincher vedi scheda film
Pare che della novella di Scott Fitzgerald (una ventina di pagine), nel film sia rimasta solo l’idea di raccontare la storia di un uomo che nasce vecchissimo e muore neonato, ispirata allo scrittore dalla nascita di un figlio e da questa riflessione di Mark Twain: «La vita sarebbe assai più felice se nascessimo all’età di 80 anni ed evolvessimo gradualmente fino ai 18». Nel corso della sua esistenza a ritroso, dalla Prima guerra mondiale all’invenzione della Tv, il protagonista incrocia pittoreschi caratteri e viaggia via mare tra New Orleans e la Russia estrema, sempre tenuto a distanza dalla vita dalla sua inspiegabile diversità. Sarà per questo che ci ricorda assai di più Forrest Gump che il Grande Gatsby? David Fincher ed Eric Roth (già sceneggiatore del citato lavoro con Tom Hanks, ma guarda un po’), sembrano interessati a rievocare lo stesso sentimento di dolce fatalismo, tremula rassegnazione, onnipotente vanità di qualsiasi cosa si agiti nell’inarrestabile scorrere del tempo che hanno fatto del film di Zemeckis un classico. Ma se questo film verrà ricordato, non sarà per l’esplorazione sconvolgente della sua allegoria, ma per il fatto di essere forse il primo a prendere le parvenze di un attore e farle recitare in digitale (diciamo i primi 90 minuti del Brad Pitt anziano) o per la calda interpretazione, non digitale, di Cate Blanchett (ancora una volta strepitosa), la cui storia d’amore con il protagonista ha a disposizione solo il decennio in cui le loro età sono a sincrono. Sul taccuino, alla fine delle 2 ore e 46, rimangono ancora: la sensazione di opulenta sproporzione tra i mezzi e il fine, una seducente parentesi con Tilda Swinton, il riflesso morbido e dorato che impregna molte inquadrature come se Fincher, nei panni di uno scrupoloso e facoltoso antiquario, ci mostrasse la sua preziosa collezione di dagherrotipi, perfettamente conservata, nella soffitta dove il sole incendia il pulviscolo al tramonto.
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