Regia di David Fincher vedi scheda film
Mio padre sarebbe ancora vivo e giovane. I miei nonni sarebbero poco più che ventenni. Mia moglie avrebbe una decina d’anni. Le lancette di tutti gli orologi andrebbero tutti controcorrente. Tutto diverrebbe un rewind: quindi, anche i soldati morti in guerra tornerebbero in vita, tutti gli ammalati di tumore… Un sogno il nostro. Una genialata, quella messa in scena da un regista eccezionale, che non smette mai di stupire il pubblico, David Fincher (Seven, Fight Club).
Il curioso caso di Benjamin Button, film che s’è guadagnato un’incetta di candidature agli Oscar è un bellissimo film, ma soprattutto importante riflessione sul senso della vita e della morte e di tutto quanto avviene nel frattempo, compreso l’amore.
Descrivendo la storia di Benjamin Button, della sua vita che procede al contrario, nascendo vecchio e abbandonato dai genitori sulla porta di un ospizio, con gli anni ringiovanisce e riesce anche a fare esperienza dell’amore e della felicità a fianco di Daisy, il regista s’è avvalso, come fonte d’ispirazione, di un romanzo di Scott Fitzgerald, coadiuvato nella sceneggiatura da due scrittori di grosso calibro: Eric Roth e Robin Swicord. E’ il film che potrebbe garantire la laurea con l´Oscar a Brad Pitt.
L’amore, la morte e l’evanescenza umana qui sono sotto la lente d’ingrandimento dello spettatore, che fa i conti con la propria vita, ma soprattutto su quanto essa avrebbe potuto avere in più o in meno, rispetto a quella vissuta già fino ad ora. Intorno e fuori, il paesaggio è quello devastato dall’uragano Katrina, che bussa alle finestre di una stanza d’ospedale dove è ricoverata Daisy, assistita dalla figlia. Qui c’è chi aspetta la morte e l’arrivo della tempesta che, come un’ira divina, seppellirà ogni cosa e arrugginirà anche le lancette degli orologi, che rimarranno ferme per sempre, a testimoniare la voracità del tempo. Un tempo che fino a poco prima testimoniava la vita di Benjamin, mediante le pagine scritte da lui stesso, dal giorno della sua nascita, che corrisponde a quello che segna nelle pagine della storia la fine della guerra conclusasi nel 1918, all’immediata morte della madre, durante il parto, e dall’abbandono di suo padre. Benjamin, perciò, è l’immagine dell’America del tempo, colpita dalla grande depressione. Tant’è che Benjamin cadrà, inciamperà, riprenderà con entusiasmo a vivere, ma non potrà continuare il suo progresso e segnarlo sulla linea del tempo, che conduce all’oggi, in cui anche quel Paese è in ginocchio.
Il film, in questi giorni di grande discussione (?) sulla vita e la morte assistita o meno, è una meditazione sul tempo, quello appunto biologico, ma anche sui tempi della macchina cinema. Ne viene fuori che anche la concezione del tempo, altro non è che una pura convenzione. Coincidenze, inversioni di marcia, “corsi e ricorsi”, bivi, tornanti e incidenti. In esso l’orologio naturale, quello che conduce le nostre fragili macchine umane, accade che può arrestarsi, regredire, progredire, ma anche rallentare quel cammino naturale che, quando è abitato dall’amore, si vorrebbe fermare per sempre. A tal proposito, tutto il film, fa venire in mente una splendida ed azzeccata poesia di Borges, che potrebbe essere la naturale ‘colonna sonora’ per questo film: «Se io potessi vivere nuovamente la mia vita, nella prossima cercherei di commettere più errori. Non tenterei di essere tanto perfetto, mi rilasserei di più, sarei più stolto di quello che sono stato, in verità prenderei poche cose sul serio. Correrei più rischi, viaggerei di più, scalerei più montagne, contemplerei più tramonti e attraverserei più fiumi. Andrei in posti dove mai sono stato, avrei più problemi reali e meno problemi immaginari». Immensa l’interpretazione di Brad Pitt, invecchiato e ringiovanito, mediante la tecnica innovativa di motion capture. Bravissima come sempre anche la Cate Blanchett.
Il film che si vorrebbe tenere ogni giorno con sé, sul comodino, essendo un giusto rimedio per tutti a riflettere sulla sensanzione di invecchiamento interiore, ma che non ci fa resistere alla solita tentazione di sentirsi «giovani dentro».
Giancarlo Visitilli
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