Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Un progetto covato per molto tempo Milk, che ci restituisce Gus Van Sant al meglio delle sue possibilità. Gli ultimi film del regista di Portland, con la parziale eccezione di Last Days, avevano evidenziato infatti una flessione d’ispirazione che rischiava di diventare maniera (Paranoid Park). Il nervoso equilibrio fra pulsioni eversive e forma hollywoodiana (o viceversa) che ha dato forma ai titoli più interessanti del nostro come Drugstore Cowboy o Da morire, ritorna al meglio in Milk: autentico period piece cui la fotografia dell’immenso Harris Savides (Zodiac, American Gangster) conferisce volumi, colori e forme impeccabili. Gus Van Sant traccia la parabola di Harvey Milk come se fosse quella di un eroe del New Deal: visionario imprenditore di una minoranza di cui investe i talenti (e le risorse economiche) nella lotta politica, ferocemente consapevole del valore dell’immagine (propria e altrui), animale territoriale e formidabile retorico (non sembri provocatorio, ma Frank Capra e James Stewart non sono lontani). Da agente assicurativo a primo consigliere comunale apertamente gay, Gus Van Sant risparmia a Harvey Milk l’agiografia evidenziandone la fedeltà all’ideologia del perseguimento della felicità e accennando anche alle sue aperture operaiste, fondamentali nel processo di radicamento comunitario. A soffrire purtroppo è la dimensione sessuale (casti baci tra Sean Penn e James Franco a parte) nonostante la seconda metà degli anni 70 segni l’ascesa della disco music e probabilmente il massimo punto d’euforia della comunità gay (scelta che sembra contraddittoria rispetto alla schiettezza erotica di Milk). Straordinaria operazione di equilibrismo formale e politico quella di Gus Van Sant dunque, per rendere giustizia all’uomo e al suo lascito senza rinunciare alla commozione. Radicalmente vintage, Milk potrebbe essere il canto della New Frontier di Obama che guardando al passato ammonisce con tenerezza che nessuno deve essere dimenticato. Né a Castro Street, né a Gaza.
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