Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Unmasked: senza maschera potrebbe essere lo slogan ed insieme il filo rosso che sottende la cinebiografia dedicata ad Harvey Milk, icona del movimento omosessuale americano e primo politico dichiaratamente gay ad essere eletto ad una carica pubblica . Le immagini di repertorio che accompagnano i titoli di testa (materiali fotografici che ci rimandano al fotoshop aperto dal protagonista subito dopo la sua partenza da New York) con i frequentatori di bar per soli uomini preoccupati a salvare la faccia dall’occhio indiscreto delle telecamere sono in questo senso emblematiche: una diversità sentita come colpa e vissuta lontano dai luoghi istituzionali della socialità. Ghetti della mente ma non solo se è vero che Castro Street, il sobborgo di San Francisco dove nei primi anni 70 inizia l’ascesa del nostro eroe, rappresenta un isola felice ma anche un avamposto isolato di uno stile di vita osteggiato da un ufficialità bigotta e repressiva. La normalizzazione della propria condizione diventa l’arma vincente di un uomo che visse l’impegno politico come una rappresentazione teatrale, in cui l’occasione di visibilità si tiene lontana dalle dichiarazioni di facciata e preferisce la ricerca di una condivisione di quegli ideali che dovrebbero salvaguardare la dignità di tutti gli esseri umani, allontanando pericolose discriminazioni. Milk è un uomo prestato alla politica che rimane se stesso fino all’ultimo, completamente immerso nella sua umanità ed in quella di chi lo circondava, tra gli alti e bassi di una vita che dal punto di vista privato gli riservò parecchie delusioni per l’incapacità di salvare relazioni quasi sempre concluse con finali al limite della tragedia. Dualismi e chiari scuri che nel film sono resi attraverso i diversi utilizzi della luce, sottoesposta quando disegna i contorni di un esistenza vissuta lontana dai riflettori (oscurata dalla paura di essere se stessi), quasi artificiale nella sua uniformità (il luogo scelto per “venire alla luce”) quando entra nelle stanze del potere, ed ancora con il continuo gioco di specchi e di riflessi che rimandano alla complessità della posta in gioco (la felicità personale e l’impegno civile). Gli uomini di Van Sant non sono mai banali, ed anche qui la complessità dell’esistenza si fa strada attraverso la scelta degli attori: un crogiuolo di facce e di corpi come totem di un cinema che non rinuncia alla sua indipendenza e lavora all’interno del genere con un estetica che mischia alto e basso, pop ed avanguardia. Popolare nell’esposizione dei fatti (le arringhe del protagonista assomigliano ad un esposizione filologica e didascalica del suo pensiero) “Milk” diventa cinema quando lavora sulla forma: un operazione che procede dall’interno, con inquadrature che sembrano sorprendere le caratteristiche di onnipresenza proprie del genere: la natura reale degli spazi e dei luoghi, con le architetture delle stanze che celano in parte i rendez vous amorosi, chiara allusione ai pregiudizi della società verso una sessualità percepita come peccato (e quindi da nascondere) o li comprimono per esprimere l’isolamento di che sente l’approssimarsi della fine; gli impercettibili scarti temporali (reali o immaginati) che permettono al protagonista di assistere ed addirittura sopravvivere alla propria morte ( con il personaggio che diventa mito) oppure l’assenza di profondità che elimina le distanze tra l’oratore (Milk) e l’assemblea (la comunità Gay) che lo ascolta ed enfatizza l’idea di un unità costruita sullo scambio e la condivisione, sono i colpi di coda di un autore per il resto consapevole delle regole di un operazione (divulgativa) che deve evitare pericolose devianze: la voglia di non spaventare ed il desiderio di ecumenismo finiscono per eliminare qualsiasi differenza, relegando l’eccezionalità del protagonista all’interno del già visto. Le capacità di regia non riescono a sopperire alle regole del gioco ed il film finisce per esaurire anzitempo la sua forza emotiva. Sean Penn è coraggioso nell’affrontare un ruolo che non appartiene al suo cotè cinematografico e che riesce a rendere senza i soliti istrionismi mentre stupisce per carisma ed understatement la performance di James Franco nel ruolo del compagno storico di Harvey Milk, vera e propria pietra angolare della tribù che ruotava attorno al “Sindaco” di Castro Street.
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