Regia di Gus Van Sant vedi scheda film
Inevitabile che in tempi come quelli che stiamo vivendo un film come Milk risulti profetico, simbolico, evocativo. Non è semplice, dapprincipio, decontestualizzarlo dall’epoca contemporanea: siamo appena entrati nell’obamismo (ormai possiamo parlare tranquillamente di un pensiero politico-sociale-culturale obamiano), ovviamente siamo suggestionati da questo clima necessariamente speranzoso. “Speranza”, dopotutto, è una parola fondamentale nel film di Van Sant, così come è fondamentale capire quanto di oggi possiamo ritrovare nella pellicola. Un film storico (più che un semplice biopic) deve assolutamente porre in evidenza quel che lo spettatore può estrapolare dalla vicenda declinata al passato per capire le circostanze del presente. Poi certamente la decontestualizzazione passa in secondo piano, e i parallelismi con i nuovi “nuovi” – il nero Obama è la proiezione moderna del gay Milk (?) – possono diventare anche futili.
Ebbene, arriviamo al sodo. Sicuramente emozionante, Milk è un ottimo film da manuale: un tradizionale biopic che rispetta le regole del genere, perfetto nella sua prevedibilità necessaria, snodato lungo una rete ben tessuta da un Van Sant che al contempo riesce ad essere freddo (il colloquio tra il protagonista e un poliziotto riflesso in una cintura caduta a terra) e caldissimo (specie nel disegno di Milk stesso). C’è tutto quello che ti aspetti, realizzato con esimia determinazione: la rievocazione filtrata attraverso le parole del medesimo protagonista – registrate su un nastro da ascoltare solo dopo la propria eventuale uccisione; la scansione ordinaria e lineare del tempo; il giusto equilibrio tra pubblico e privato; l’ottima centralizzazione di un frangente esistenziale (l’elezione a consigliere); la proporzione tra interiorità della paura e dimostrazione del coraggio. Piani sequenza (specie nella prima parte) in cui spunta lo spirito anarchico del regista. E proprio sul regista stesso andrebbe intrapreso un particolare discorso: con Milk Van Sant trova il modo di uscire da una catalessi ambigua, principiata con l’impressionante Elephant e terminata(?) con Paranoid Park, una fase della carriera in cui ha preferito concentrarsi sulla (post)adolescenza e la perdita dell’innocenza – rischiando di sfiorare l’assuefazione del tema stesso.
Con il ritratto del primo politico dichiaratamente gay non abbandona il discorso giovanile – c’è Cleve che batte pedana e risorge grazie alla battaglia del protagonista; ci sono i due compagni di vita di Milk, prima il militante Scott, l’eterna lotta tra amore e politica, e il fragile Jack, che non riesce a coniugare amore e politica; c’è il ragazzo gay che telefona due volte a Milk –, ma si concentra maggiormente sul mondo adulto, poco praticato negli ultimi anni dal suo cinema: eppure Milk a suo modo è un po’ adolescente, un ragazzo (della politica) alle prese con i compromessi e le battaglie civili (l’agghiacciante campagna della cantante Anitha Bryant), colpi di maggioranza in consiglio comunale e operazioni furbescamente azzeccate (la cacca dei cani): potrebbe essere un racconto di formazione, ma il discorso è più ampio.
Milk è un film che racconta un’epoca attraverso l’affermazione dei diritti inalienabili dell’uomo, un racconto esemplare di strenua civiltà che in un futuro prossimo diventerà un film simbolo e di culto, e non solo per il movimento gay – le immagini del Gay Pride di Los Angeles sono adorabilmente fuori dalla cognizione del tempo e dello spazio, grazie a fattori fondamentali che ne potranno garantire la lunga conservazione: l’inalterabilità della lotta; la necessità della lotta; il fascino di una lotta; una lotta che è buona battaglia. Mai perdere la speranza, dice Milk, mai farsi fregare dagli imprevisti. Quella morte sorpresa e tragica – che ricorda esplicitamente la Tosca – vale l’opera. Gli occhi di Sean Penn valgono l’opera.
Non si dimentichino l’ottimo Emile Hirsh – indimenticata anima di Into The Wild, altro personaggio che porta al limite se stesso – né tantomeno il sorprendente James Franco; grande Josh Brolin, che si candida al premio di personaggio più squallido dell’anno: non si è solo concesso il lusso di aver incarnato George Bush in W, ma si permette pure di interpretare l’uccisore fanatico del protagonista. Qualche parola sulla strepitosa performance del duttile Penn va spesa: proba, sensibile, lucida. Penn ebbe l’Oscar nella stessa annata del wrestler Mickey Rourke. Curiosità: sarebbe interessante sapere quanto abbia speso Harvey Milk in quattro anni di campagna elettorale. L'audacia della speranza.
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