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Achille e la tartaruga

Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film

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La recensione su Achille e la tartaruga

di carlos brigante
8 stelle

Achille e la tartaruga” è il terzo capitolo di una discontinua trilogia iniziata col sottovalutato “Takeshi’s” e proseguita col deludente “Kantoku banzai! (Glory to the filmaker)”. Questa volta Kitano abbandona la via metacinematografica e si riappropria del suo stile, di quel (suo) cinema che lo ha fatto apprezzare ai cinefili di mezzo mondo (o quasi). Il tema centrale (come nei precedenti capitoli) è sempre l’arte e il ruolo dell’artista. In questo caso, un artista ossessionato dalla propria passione e in continua ricerca del riconoscimento da parte degli altri. Un’ossessione sfiancante che va a discapito del talento e della vena artistica (presunta o reale che sia). Un inseguimento infinito che sfinisce la propria persona e ciò che la circonda. Un inseguimento che, come quello di Achille, pare non raggiungere mai l’agognata tartaruga.
 
Il film può essere suddiviso in tre parti: infanzia, giovinezza e maturità/vecchiaia dell’aspirante pittore Machisu. Attraverso queste fasi, Kitano pone delle domande senza fornire delle risposte definitive. Cos’è l’arte? Chi è l’artista? Quando un “prodotto” può essere definito artistico? Chi ha il potere di deciderlo? E la fama, è un bisogno dell’uomo-artista? Le uniche certezze, che pare suggerire, sembrano essere la profonda solitudine e l’inconsapevole egoismo che accompagnano un individuo alla spasmodica ricerca di un qualcosa di non tangibile.
 
In maniera semplicistica “Achille e la tartaruga” ricorda quelle atmosfere già viste in “Zatoichi” o “L’estate di Kikujiro”, in cui il dramma è per così dire sempre trattenuto e dove il grottesco si fa breccia qua e là dissipando la tragedia. I toni struggenti che caratterizzavano opere come “Hana-bi”, “Violent Cop” o “Dolls”, lasciano il posto ad una composta leggerezza che non è mai superficiale e che non scade neppure in quella demenzialità che aveva colpito “Getting any?” o il mediocre”Kantoku banzai!”.
Kitano ha sensibilmente ridotto il tempo dell’inquadratura e forse si concede qualche piccolo movimento di macchina in più, ma è impossibile non riconoscere la sua mano. Soprattutto nell’ultima parte, quando “Beat” Takeshi entra in scena. Il colore raccorda il montaggio e il variopinto cromatismo illumina la scena e crea sensazioni. La sua disarticolata camminata alla Chaplin squarcia frontalmente lo schermo portandoci in primo piano quel faccione keatoniano da clown triste (qui riproposto in un dipinto che riprende palesemente un momento di “Takeshi’s”) in quel kids return continuo che ha sempre caratterizzato il suo cinema e probabilmente la sua vita. In fondo, i suoi personaggi non hanno mai smesso di essere bambini… vero Murakawa?
 
Scritto, montato, diretto e dipinto da Takeshi Kitano.
 
In attesa del ritorno degli yakuza con “Outrage”, il mio percorso sull’opera omnia di questo straordinario regista si ferma qui… per il momento.

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