Regia di Michael Winterbottom vedi scheda film
La città è il titolo stesso, viene fatta scoprire insidiosa, generatrice di ansia, crollata sulle sue magnifiche memorie marinare sotto il peso delle invasioni barbariche della modernità.
Si apre all’improvviso dall’alto e le piovono addosso le note scroscianti di un ensemble barocco che fa tanto Venezia.
Scopriamo che Winterbottom considera Genova sorella della città lagunare e la scruta in ogni angolo, putrescente e sfatta come le callette veneziane prive, ormai, di suggestioni decadenti di viscontiana memoria.
Chopin è il secondo tema sonoro, malinconia di una vita che non riesce ad essere, giovinezze perdute per sempre.
Il plot è presto detto e non è lì la fisionomia distintiva del film: lui (un Colin Firth che rende bene l’imbambolamento successivo a certe disgrazie) americano di Chicago, prof. universitario,vedovo di giovane moglie morta per incidente stradale, si trasferisce per un anno a Genova con le due figlie adolescenti in un disperato tentativo di extraterritorialità a scopi terapeutici.
Strano che un intellettuale (se ne respira l’aria nel film) non sappia che non si sfugge a sé stessi viaggiando, ma tant’è, lui ci prova.
Le fanciulle naturalmente reagiscono male, le contraddizioni vengono a galla tutte,i fantasmi della mente circolano indisturbati nelle stanze dell’appartamento del vecchio centro storico, affittato dalla buona e disponibile ex compagna universitaria (che forse ha lasciato un pezzettino di cuore al vecchio amico di un tempo).
Il luminoso mare ligure con bagni e sole sulle pietraie di S.Margherita non alleggerisce incubi e pena,la grande odia la sorellina a cui attribuisce la colpa dell’incidente d'auto in cui è morta la madre.
Mary, che ha giusti sensi di colpa, insegue la madre in un suo mondo onirico che si fonde col reale, ma la realtà è fatta di rumori, traffico che ti falcia se fai il passo sbagliato, angoli bui dei carrugi dove occhieggiano puttane e strane ombre sfuggenti di varia umanità, macchia mediterranea in cui perdersi, stazioni con treni che vanno chissà dove, bar fumosi dove combriccole di ragazzotti in perfetto stile terzo millennio accerchiano l’americanina (la sorella più grande).
Il dolore della bambina sarà immedicabile ed è questo, insieme alla tensione che regna in tutto il film,che Winterbottom riesce a trasmettere con indubbia capacità registica.
Non c’è una sequenza che dia tregua, eppure accade tutto nella prima.
La sensazione che ogni cosa debba crollare da un momento all’altro, l’impressione di essere sull’orlo della catastrofe e un attimo dopo non è accaduto nulla, è questa la cifra stilistica del film, non eccellente, a volte tirato via a mò di brainstorming su cui tornare poi a mettere ordine, ma niente di dejà vu,tiene lo spettatore a disagio per tutto il tempo, mostra il disordine irrazionale dove il caso detta legge nell’apparente ordine che tentiamo di dare alle cose.
Finale aperto, naturalmente, non ci lasciamo illudere, sembra dire “….e vivranno tutti infelici e contenti”.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta