Regia di Jonathan Demme vedi scheda film
Film con pregi e difetti che tutto sommato non si sopravanzano; una variopinta rimpatriata di Demme con amici e parenti (c'è il figlio chitarrista, c'è il cugino reverendo) o, com'è stato definito, un augurio multirazziale all'allora neo presidente Obama.
I matrimoni americani sono una delle manifestazioni più stupide che si conoscano (dopo l'Encierro di Pamplona e poche altre idiozie del genere), con giorni di preparazione, lotte intestine per il ruolo di damigella d'onore, lacrime di coccodrillo e discorsi futili come neanche quelli pronunciati dall'onorevole Casini nel parlamento italiano. È come affondare una lama calda nel burro, prendersi gioco di una tradizione così insulsa, che tra l'altro prevede che gli sposi si possano baciare solo dopo il fatidico sì, anche se la sposina è già incinta di qualche mesetto, che i neomaritati servano al party nuziale e che gli invitati si affaccendino dietro al barbecue. E peraltro, Demme ci mostra queste feste dove tutti si passano vassoi pieni di cibo che nessuno tocca e mai si vede alcuno che si riempia la bocca di quelle pietanze. Si chiacchiera, anche troppo, ci si scanna come in un film bergmaniano o in un dramma di Ibsen e la macchina da presa, tanto per rimanere dalle parti della Scandinavia, si muove come se la tenesse in mano Lars von Trier. Ma la storia, comunque, c'è e gli attori pure: Anne Hathaway dimostra di non essere una sciacquetta, anche se il mio preferito è Bill Irwin, quasi perfetto nel ruolo di un padre dolente ma comprensivo. Demme, inutile dirlo, ha tanto mestiere, ma gli manca la verve dei suoi primi, vitalissimi, film.
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