Regia di Max Ophüls vedi scheda film
Max Ophuls ha la capacità di narrare filmicamente una storia in maniera incredibile, una capacità che molti si sognavano e tutt’ora si sognano, una leggiadria estetica e contenutistica che non lascia scampo e coinvolge, che viene assorbita dai movimenti di camera e da quegli sguardi disincantati nei confronti delle grandi sofferenze umane. Il mondo di Max Ophuls è una ronde, una giostra di amori ed umori che continua a girare, nonostante le ossessioni, nonostante le involuzioni. Un gioco della vita che non esclude, nel suo vivace roteare, una serietà e una gravità fondamentali, necessarie per comprendere il disagio esistenziale della protagonista di Lettera da una sconosciuta, adattamento dell’omonimo romanzo breve di Stefan Zweig.
“Un essere umano nasce due volte: quando viene alla luce e quando prende coscienza della vita”. Joan Fontaine pronuncia queste parole mentre gli uomini dei traslochi trasportano da una carrozza merci il pianoforte di Stefan, l’uomo che lei è destinata ad amare e che diventerà il cardine stesso della sua futura esistenza. È lo stesso motore che muove la narratrice del romanzo di Zweig, un motore di convulsa passionalità, che rende ciechi e irruenti, incapaci di muoversi secondo altre traiettorie. Ma se nel film Ophuls tiene a una drammatizzazione classica sebbene oggi non invecchiata, nel romanzo l’innamoramento della donna si tinge di ossessione e viene inquadrato in tutta la sua carnalità e anche nella sua nefandezza. Se i toni melodrammatici del film si acuiscono nel tragico finale, parzialmente descritto all’inizio del film, nel romanzo si stemperano in un’analisi lucida e a tratti inquietante di una donna tutt’altro che tenera (di cui non immagineremmo mai le sembianze di Jean Fontaine), capace di tutto il male possibile pur di salvaguardare il suo amore per il romanziere R. e per il figlio che da lui ottiene. Nel romanzo la donna è addirittura vanitosa, testarda, infantile, e disprezza la povertà e la miseria tanto che la ricchezza, insieme all’amore per R., diventa il metro della sua stessa esistenza, a qualunque costo, anche a quello di vendere il proprio corpo.
Una devozione passionale e indomita che nel film di Ophuls viene in qualche modo alleggerita probabilmente per sviare i limiti della censura: la storia di Lisa è tradizionale, quella di un amore non ricambiato e umiliato dalla promiscuità e dalla disinvoltura di un uomo sciupafemmine e noncurante di ciò che lo circonda, innamorato della propria arte e di nessun’altro. Ancora una volta, l’aspetto che si ha del protagonista maschile, nel libro, è molto meno colorito del film. L’uomo è molto più vile, bugiardo e crudele, e Zweig non gli concede quei momenti di tenerezza che invece Ophuls concede al suo protagonista per esempio nella splendida sequenza del treno finto del Prater. Nel libro l’uomo finisce per scambiare la donna per una prostituta d’alto rango, gettandola così nella disperazione più acuta. Nel film la tenerezza della donna è invece sconfinata, e costringe lo spettatore a un’empatia che il lettore invece non prova neanche un attimo. Il filtro del racconto e della finzione, sebbene amplificato nel film, tramite la drammaticità del complesso, permane soprattutto nel racconto, in cui il lettore si sente sempre distante da entrambi i personaggi, sebbene capace di comprendere le azioni di entrambi. Gli intenti delle due opere cambiano, ma nessuna delle due perde il suo incredibile e immortale fascino, il libro per lo stile vorticoso e magistrale del suo autore, il film per l’incredibile struttura narrativa che anticipa moltissimi artifizi che il cinema successivo adopererà mai con tale grazia, primo fra tutti il flashback e, di conseguenza, la gestione “estetica” della progressione narrativa: è con le eleganti movenze dell’immagine che Ophuls consegna un dramma davvero teso e insopprimibile per la memoria dello spettatore di ieri e di oggi, l’incredibile storia di un amore trascinato per una vita intera, un amore mai stanco nel suo esprimersi, capace però di requie (il matrimonio con il nobile verso la fine) che nel romanzo non hanno però al contrario la minima ragion d’essere.
Notevole, oltretutto, la capacità di mostrare comprensibile (seppur criticabile) il comportamento di Stefan, che si guarda, nel film, sempre con un occhio di riguardo e di stima, proprio perché si è in grado di identificarsi con l’animo irrequieto e insaziabile di Lisa, sempre in tensione e mai capace, se non in rari momenti, di “raccontare” il suo amore (e la lettera, come la letteratura nel romanzo, diventano immancabili mezzi di comunicazione del sentimento, in tutte le sue sfaccettature). Lettera da una sconosciuta, con tutta la sua immortale forza, è un racconto di intensa commozione e di grande impatto spettacolare, dotato com’è di un’eroina imperfetta vittima del suo inscalfibile romanticismo. Niente a che vedere con la donna del romanzo, più “ossessionata” che innamorata. Un adattamento, dunque, quello di Ophuls, che avvicina più ai personaggi ma che mette solo sullo sfondo quello che è il significato più profondo della vicenda zweigana: il fine ultimo infatti è quello di raccontare la storia di una donna che ha appena scoperto lo scopo della sua vita e si accorge che esso non si rivolge a lei, non la riconosce, la tiene sempre distante, la tratta sempre da sconosciuta. Alla fine, pur nelle differenze, film e romanzo narrano di una grandissima insoddisfazione, estendibile a qualsiasi essere umano. L’eterna sofferenza.
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