Regia di Max Ophüls vedi scheda film
“Cose insignificanti spesso determinano il corso delle nostre vite: a volte, tutti presi dai nostri problemi, non le notiamo neanche, e presto si cancellano dalla nostra memoria. Ora so che mai niente accade per caso: ogni istante ha il suo peso, fino a che anche la morte appartiene al passato”. Racchiude tutto questa frase, recitata con delicata passione da una delle Joan Fontaine migliori di sempre: d’altronde Lettera da una sconosciuta è uno struggente mèlo al calor bianco che Max Ophuls ambientò nella Vienna fredda ed elegante tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, basandosi su un romanzo di Stefan Zweig. Stefan è anche il nome del protagonista maschile, a cui Louis Jordan conferisce portentoso fascino, ed è la rappresentazione umana dell’ideale dell’uomo romantico: artista fallito che non riesce ad amare ma solo contemplare una figura femminile che idealizza per poi dimenticarsi. L’impossibilità di un amore che si possa definire tale in un’ottica di normalità sentimentale è anche uno dei temi principali di un film più commosso che commovente, crudele più che triste, romantico e mai minimamente mieloso. Piccolo, come certi brevi incontri, tenero e cattivo, con invenzioni registiche sublimi (non solo il gioco dei paesaggi disegnati alle giostre al Prater, ma anche i clamorosi giochi di sguardi all’opera), Lettera da una sconosciuta è un capolavoro (non solo nel suo genere) perché non ha bisogno di parole per essere commentato. Basti la scena dell’incontro, dopo dieci anni, a casa di lui. C’è tutto un mondo dentro quella stanza.
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