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Un giorno perfetto

Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film

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La recensione su Un giorno perfetto

di MarioC
2 stelle

Un giorno perfetto è un drammone strappalacrime alla Amedeo Nazzari, aggiornato al tempo dei femminicidi e delle stragi familiari. Solo che, al cospetto, i film di Amedeo nostro appaiono dei mostri di distaccata consapevolezza, persino di autorironia.

L’universo che gravita intorno al cinema italiano, ai suoi artefici e deus ex machina, soffre di cicliche mode, improvvisi innamoramenti, professioni di fede di non provato affidamento. Una di queste incontrollate vox populi designa Ferzan Ozpetek come ottimo regista, fine tessitore di storie, ipersensibile cantore di mondi e sentimenti marginali e sommersi. Il cuore italiano è abbondantemente esterofilo e pronto alle più ardite genuflessioni: c’è anche da dire che il regista di origine turca ha avuto un esordio positivo ed un percorso autoriale di non disprezzabile fattura, tuttavia progressivamente annacquato in prove sempre più inutilmente sentenzianti.

L’acme di questa cedevolezza alla magniloquenza può e deve riscontrarsi nel cupissimo Un giorno perfetto, opera in cui Ozpetek, senza sapere bene da che parte affrontare la materia, delinea per linee grosse e grezze un terribile fatto di cronaca (un padre divorziato che stermina i due figlioletti), senza mai riuscire a creare un reale afflato con gli spettatori, lasciati inerti di fronte ad un plot narrativo che procede per accumulo e per deviazioni vicine al nonsense, in un crescendo di sgradevolezze qua e là alternato a iperglicemiche parentesi che si vorrebbero defatiganti (la impossibile e ontologicamente falsa storia d’amore tra la giovane donna sposa infelice dell’agiato politico e il di lui imberbe figlio, con velleità da artista maledetto e doti pittoriche piegate, ma va’, al corteggiamento) e che risultano invece meri inserti riempitivi di una sceneggiatura asmatica e balbettante.

 

 

La rilettura di un romanzo di successo (l’ononimo Un giorno perfetto di Melania Mazzucco, sul quale ci sia consentita la professione di agnosticismo discendente dalla mancata lettura) non è evidentemente nelle corde di Ozpetek, perfettamente a suo agio quando si tratta di imbastire (con occhio furbescamente strizzato al “gradevole”) storie corali adagiate sui sinuosi movimenti di macchina e sui carrelli che abbracciano in tondo le arcinote tavolate di amici e/o avventori casuali, in chiaro deficit di ossigeno quando si tratti di abbozzare una più stringente analisi psicologica, di far esprimere ai personaggi l’indicibile (ovvero l’angoscia derivante dalla sua inesprimibilità), di estrarre dal poliziotto Antonio/blocco di granito o dalla casalinga Emma/madre amorosa e donna svampita la scintilla di un quid psicologico che si ancori al vissuto, al passato, al pensiero e consenta in chi guarda un, pur soffertissimo, processo di semi-identificazione.

Nulla di tutto questo: Ozpetek procede con i paraocchi, ritaglia figurine, peraltro inutili come “doppioni”, e le catapulta tra i fondali di una Roma asfissiante, buia, essa stessa malata di bulimia espressiva, lasciando che a parlare per esse siano non le parole (banali, scontate, proprio quelle che ti aspetteresti da un drammatico e pessimo romanzo di appendice), bensì i volti, le occhiate, i segni distintivi (il labbro tumefatto del personaggio della Ferrari, le sue gonne corte e stazzonate, elementi che conferiscono per nascita lo stigma del destino disperato o, ancora, la fissità dei lineamenti di Mastandrea, già pronti per la comoda trasformazione in cecità e rabbia distruttiva, per non parlare del finto candore degli occhi tristi della Finocchiaro, che passa e va nel film come sterile presenza angelica, coscienza impotente di colei che sa e nulla può fare ).

Nel finale, pregno di una drammaticità insostenibile eppure in sospetto di gratuità (forse in conseguenza dello sviluppo narrativo del film, declamante ed impassibile nella sua dichiarata programmaticità), Ozpetek tenta la carta della sottrazione: ci risparmia (deo gratias) i primi piani degli innocenti immolati, ma non arretra di fronte alle urla ed ai colpi di pistola, tentando pietosamente di ovattare la tensione attraverso la visione in loop de “La marcia dei pinguini”. Espediente irritante, ennesimo tributo ad una presunzione comunicativa, e correlata incapacità fascinatoria, che, essa sì, sgomenta.

 

 

Un cenno agli attori va fatto: Mastandrea spreca il proprio innegabile talento in un personaggio unidimensionale; e, se pure lascia intravedere bagliori di una disperazione invincibile, è stretto al laccio di una sceneggiatura che gli impone una sequela interminabile di scene madri (quella dello stupro è, oltre che girata male, il canto del cigno di una urgenza figurativa fine a se stessa e priva delle necessarie istanze psicologiche); Isabella Ferrari carica la sua Emma di una dolcezza sporca, le dona fermezza e dignità e risulta la meno coinvolta nel disastro; di Angela Finocchiaro si è detto: gli occhioni spalancati, le microespressioni contrite, in quello che è uno dei troppi errori di sceneggiatura; Binasco fa il politico apparentemente di successo, perso in un animo che è un covo di afflizioni. Alias: come ridurre un ottimo attore ad un groviglio di espressioni da filodrammatica; Stefania Sandrelli è ormai abbonata ai ruoli da mamma dolce e sensata, ma recita per contratto e spande fiumi di melassa, anche tramite carte e tarocchi; i giovani Costantini e Grimaudo (sempre bellissima, qui inutilmente) sono i virgulti singhiozzanti di una afflizione che Ozpetek vuole universale e parlano per frasi da Baci Perugina dell’orrore: quando lei cita l’infanzia felice a Marzamemi (incantevole borgo di Sicilia) lo spettatore non sa se consultare la cartina ovvero abbandonarsi fidelisticamente alle deviazioni pseudointellettuali di un regista che si fa gestore di un vilaggio Alpitour della infelicità.

 

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