Regia di Ferzan Özpetek vedi scheda film
Ci avete fatto caso che Ozpetek ama i suoi attori? Se la risposta è affermativa, bravi, non ci voleva molto per capirlo. Se la risposta è negativa, beh, avete mai visto un film del registo turco più romano del commissario Giraldi? L’avete visto l’ultimo opus, “Un giorno perfetto”, tratto dal romanzo della Mazzucco (già Premio Strega con “Vita” – piuttosto, a quando il film tanto annunciato da Virzì?)? È tutto un indugiare su primi piani amorosi. Non c’è praticamente scena in cui non compaia un attore. Per certi versi, Ozpetek è il migliore in circolazione. Allora non è un caso che abbia radunato un cast così eterogeneo e ricco, abitato da interpreti che meriterebbero più occasioni di passare sul grande schermo (penso alla sempre sbalorditiva Stefania Sandrelli, alla enigmatica Monica Guerritore, a Milena Vukotic – che fa solo una comparsata, a Valerio Binasco…). Il primo piano sembra avere una valenza essenziale nel cinema ozpetekiano: si serve di questo per indagare nell’animo, o almeno in quegli indizi visibili ed invisibili che nel volto traspaiano dell’interiorità. Dunque, si potrebbe dire che per Ozpetek sei quel che appari? No, e non si può ridurre un regista così sensibile in questi termini. È invece la cinepresa quasi (involontariamente) psicanalitica che cerca di individuare il palese per spiegare l’inconscio, il nascosto. Forse non ne ha tutti i mezzi necessari, ma è indubbia la sua sincerità e il suo affetto. Benissimo, detto ciò – ossia quel che balza subito all’occhio durante la visione del film, scendo nei particolari. E come è presente la sincerità, certamente è ben evidente in “Un giorno perfetto” la messa in gioco della carriera di Ferzan. C’è un elemento che lo fa capire: manca il personaggio omosessuale. In ogni film di Ozpetek c’è un personaggio omosessuale, anche perché lui è per eccellenza il regista che meglio sa parlare al mondo gay – se non altro perché lo è e quindi ne afferra gli stati d’animo più di altri. E, guarda un po’, nel romanzo della Mazzucco il gay c’era, ossia l’insegnante della figlia della protagonista, Sasha, qui trasformato in una donna (Guerritore). Di conseguenza, ciao ciao al rapporto che si instaura nel libro tra il professore e la madre della ragazza, che metteva in discussione l’omosessualità del personaggio. Come mai una scelta così radicale nell’itinerario del regista turco? Probabilmente vuole allontanarsi da un’etichetta che potrebbe condannarlo a girare solo un determinato tipo di film. E, dopotutto, non si può vivere di soli “Saturno contro”. A proposito, giusto per rimanere in tema, non vi pare che tutte le anime del film abbiano un po’ il succitato pianeta avverso? Proprio come nella precedente opera: qui lo si può leggere come un sottotesto affascinante, che quindi crea quel necessario punto di contatto tra il passato e il presente. A conti fatti, però, il film della svolta di Ferzan (che sarebbe dovuto essere “Cuore sacro”, apprezzato da pochi e sbeffeggiato dai più) non centra il bersaglio completamente. E sapete forse dov’è il problema? Nell’eccessiva coralità del racconto. È una contraddizione, o no? Forse sì – e le responsabilità vanno ascritte alla sceneggiatura del prolifico Sandro Petraglia e del regista - ma era già un problema riscontrato in “Saturno contro”: generoso com’è, Ozpetek tenta di dare voce ad ogni sua creazione, ma inevitabilmente alcuni personaggi risultano o solo abbozzati (Angela Finocchiaro, di cui non si capisce fino in fondo ciò che muove la sua azione eterea), o sfumati e sfocati (Guerritore), o addirittura senza un interesse che veicoli verso di loro (Serra Yilmaz fa una comparsata da gelataia: ok, è il portafortuna del regista, però…). Ebbene, qui i difetti. I pregi ci sono, e anche non pochi. “Un giorno perfetto”, titolo abbastanza ironico, è il racconto di una mezza dozzina di esperienze umane che, salvo eccezioni, non hanno un inizio e non hanno un fine. Per un motivo: sono episodi colti nell’ampiezza di una storia figlia dell’incertezza dei nostri tempi. Ineluttabile film di inizio millennio, c’è una certa angoscia che avvolge il tutto, quasi a voler sottolineare una qualche ostilità dell’autore alla realtà che lo circonda (non scoraggiamento, non fa parte del modo di essere del suo artefice). D’altronde è indispensabile questa atmosfera cupa, visto il tostissimo soggetto in campo – mi riferisco alla storia cardine, quella a cui girano attorno le altre, ovvero il fallimento del matrimonio di Mastandrea e Ferrari e le relative conseguenze – che cresce a poco a poco fino a raggiungere una vetta di inesplicabile violenza derivante dal solito male oscuro. Non svelo niente, perché una delle caratteristiche più interessanti del film è proprio la sua narrazione coinvolta e coinvolgente. Ozpetek sa raccontare le storie, e lo sa. Alterna registri diversi, stile convulso e precipitoso nel filone di Mastandrea-Ferrari, più ovattato ed infelice il segmento Binasco-Grimaudo-Costantini, la nota lieta di Sandrelli, quella più sibillina di Guerritore. Puntellato da musica forse troppo invadente ma efficace (di Andrea Guerra), il film si avvale della prova ruggente e ferita di una Isabella Ferrari in stato di grazia, cui il brutale e malato Valerio Mastandrea regge lo stuolo con bravura, della luminosità di Nicole Grimaudo, moglie del malinconico politico Valerio Binaco e matrigna di Federico Costantini, dell’ermeticità di Monica Guerritore. E poi, lasciatemelo dire: Stefania Sandrelli viene da un altro pianeta, con la sua dolcezza infinita, il suo candore disarmante, la sua serenità calcolata. Ozpetek dice di aver ridato vita all’Adriana di “Io la conoscevo bene”, dal momento che nel capolavoro di Antonio Pietrangeli Stefania si buttava dal balcone, incinta. Con le età ci siamo (la Ferrari può essere tranquillamente nata nel 1965), con gli stati d’animo pure. Ora Adriana fa la chiromante, non sa chi sia il padre della figlia (“e chi lo conosce!” esclama tranquilla al nipotino che gli chiede del nonno), costruisce l’aquilone per il bambino. E proprio i bambini potrebbero salvarci da questo mondo sofferente e smarrito, la speranza è proprio rappresentata dai figli di Mastandrea e Ferrari, più maturi dei loro genitori nell’affrontare la vita nelle sue difficoltà. Peccato che, però, anche questi ultimi bagliori di un nuovo orizzonte vengano soppressi nel modo più atroce da persone perse in sé stesse e giunte ad un punto di non ritorno. Anzi, forse c’è qualcosa che si può salvare. O qualcuno.
Talvolta un po' ingombrante, enfatica, ma efficace, di Andrea Guerra.
Voto: 7.
Fenomenale bambino di cui sentiremo parlare ancora. Quando canta "Bruci la città" è di una tenerezza infinita.
Brava ragazzina.
Che dire? Meravigliosa, viene da un altro pianeta, con la sua dolcezza infinita, il suo candore disarmante, la sua serenità calcolata. Ozpetek dice di aver ridato vita all’Adriana di “Io la conoscevo bene”, dal momento che nel capolavoro di Antonio Pietrangeli Stefania si buttava dal balcone, incinta. Con le età ci siamo (la Ferrari può essere tranquillamente nata nel 1965), con gli stati d’animo pure. Ora Adriana fa la chiromante, non sa chi sia il padre della figlia (“e chi lo conosce!” esclama tranquilla al nipotino che gli chiede del nonno), costruisce l’aquilone per il bambino.
Tre pose che manifestano il mistero del personaggio, a metà tra sogno e realtà, terreno ed ultraterreno.
Torna sul grande schermo - meno male. E regala una prova intensa ed enigmatica, misteriosa e partecipe. La vorrei vedere più spesso.
Ancora acerbo, tuttavia se la cava.
Bravissima (mi verrebbe da dire anche sorprendentemente) in ruolo da ipocrita, e a tratti un po' stronza, moglie dell'onorevole.
Avvolta da una certa malinconia, è il rappresentante di quel mondo politico corrotto e determinato a mantenere la propria impunità dentro il Parlamento. Esemplare interpretazione.
Brutale e feroce, malato e perverso, offre una recitazione psicologicamente perfetta. E non si può non odiarlo.
Clamorosa prova di questa leonessa ruggente e ferita, grande interprete di un dramam corale che fa perno su di lei e sulla sua esperienza. Di una bravura strepitosa, infallibile e volutamente imperfetta (nella perfezione con cui raffigura l'involontaria volgarità di Emma e il suo smarrimento esistenziale).
Per la prima volta affronta un soggeto non suo. I difetti ci sono (una certa difficoltà nel modulare la coralità del cast, un po' di approssimazione nella sceneggiatura), ma i pregi non sono pochi, specie nella direzione degli attori e nel coinvolgimento nella storia.
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