Regia di Clark Gregg vedi scheda film
Il film (non il romanzo che è tutt’altra cosa), si potrebbe definire una boutade un po’ contorta di ossessioni irrisolte e di morbose incongruenze alla ricerca della propria origine. Quasi una galleria di situazioni al limite del bizzarro non sufficientemente cinica, che si fa osservare con una certa qual dose di incredula curiosità.
Ci sono delle cose (e anche dei film) che ti sfiorano ma non ti “toccano”, le “percepisci” in superficie, ma non le penetri, rimangono così esterne da non “fare storia”, perché ti accorgi che non hanno lasciato alcun tangibile segno del loro passaggio dentro di te capaci di renderle - nel ricordo - se non “memorabili”, per lo meno “intriganti” e degne di attenzione. Non so se ho reso l’idea, ma è un po’ quello che ho provato all’uscita della visione di “Soffocare”, innocua e “conforme” pellicola di un regista/artigiano che evidentemente non ha saputo “traslare” adeguatamente in immagini cinematografiche la straordinaria complessità del tracciato di un romanziere “anomalo” e a suo modo geniale come Chuck Palahunik. Certamente uno scrittore difficilmente “approcciabile” cinematograficamente parlando, perché se non si è a sua volta un po’ pazzoidamente ingegnosi, credo che sia quasi impossibile riuscire a rendere in immagini (che sono per natura portate a “semplificare” rispetto alla pregnanza della parola) ciò che si “nasconde” dentro i risvolti velati delle metafore e delle provocatorie, ironiche contaminazioni disseminate nel percorso. Ci si domanda semmai allora perché si decide di intraprendere simili imprese se non si possiedono poi le capacita (e anche i “mezzi” economici della produzione) per rappresentare davvero “quel” mondo, per riprodurre con la macchina da presa il denso tessuto connettivo dello scrittore, per “mediare” insomma il senso e il paradosso della sua “narrazione”. Non che il film sia brutto o fatto male, intendiamoci, tutt’altro: lascia semplicemente “indifferenti,” talmente aderente alle vicende della storia (ma con “omissioni” importanti e un finale un po’ affrettatamente buttato là) da risultare quasi una illustrazione un po’ sbiadita, che non possiede sufficiente forza introspettiva per “fotografare”, rappresentandolo davvero per ciò che dovrebbe essere, il nocciolo profondo di questa straordinaria incursione delirante nei meandri dell’inespresso e delle maniacali “incongruenze” comportamentali dell’uomo e la sua mente. E di fronte a una esposizione letteraria di tale densità anche “provocatoria” dire che il risultato della corrispondente pellicola è senza infamia e senza lode, credo che sia la conferma del “fallimento”: meglio infatti un giudizio negativo che evidenzi un tentativo non riuscito, ma coraggioso, alla “sopportabilità” un po’ asfittica della “carineria” convenzionale di una messa in scena privai dei necessari sussulti e solo un tantino “stravagante”. Limitandoci “all’apparenza”, si potrebbe allora definire l’opera (il film intendo, non il romanzo che è certamente tutt’altra cosa), una boutade un po’ contorta di ossessioni irrisolte…e di morbose incongruenze alla “ricerca” della propria origine. Quasi una galleria “sintomatica” di situazioni al limite del bizzarro non sufficientemente “cinica” e irrispettosa delle regole, che si fa osservare con una certa qual dose di “incredula curiosità” e poco più. Palahunik in una breve intervista riportata sull’ultimo numero di Ciak alla domanda: “ Qual è il suo rapporto col cinema?” con il suo solito stile un po’ paradossale, ha risposto: “Il cinema è il nemico. E’ la forma di narrazione dominante dei nostri tempi, io voglio riportare la gente alla lettura perché un libro può fare cose impossibili per un film. Il cinema, per le sue caratteristiche, deve rispettare certe convenzioni perché dispone di un pubblico vastissimo esposto a una fruizione collettiva. Il libro invece presuppone un consumo individuale, soggettivo, c’è una sorta di fruizione consensuale; quindi si può sfidare il lettore molto più di quanto si possa fare con il cinema”. Sarà forse per questo allora che accetta di affidare le sue opere a registi che sa già in partenza – per un verso per un altro - molto lontani dalla sua “poetica di fondo”? Per essere sicuro di riuscire meglio a perseguire il suo obiettivo? C’è da valutate però se davvero una visione più superficiale delle cose come questa, invogli poi al confronto con la lettura della fonte”… più facilmente saranno invece coloro che già conoscono l’opera ad approdare in sala di proiezione (e a rimanere in parte delusi dal risultato).
gustoso, bravissimo, delirante e attonito al punto giusto
straordinaria e stravagante con il giusto "passo" ironico dell'attrice di razza
Veste i panni di Danny,a sua volta affetto da onanismo sfrenato, che tenta di esorcizzare la sua ossessione icongenita, ngegnandosi in una infinita raccolta di pietre, al fine proprio di “costringere così la mano a stare ferma e a non operare le proprie frenesie masturbatorie dentro la patta dei pantaloni”. Non deve fare molto, ma quello che fa lo fa con il necessario senso del ritmo (ed ha la faccia giusta per il ruolo)
Senza infamia e senza lode... un'opera quasi grottesca ma senza i necessari "guizzzi"
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