Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Il film è la storia di tre soldati volontari americani, impegnati in Iraq nelle rischiosissime operazioni di disinnesco delle mine disseminate (e dissimulate), durante la guerra di Bush, dappertutto su quel territorio.
William James (Jeremy Renner); J.T. Sanborn (Anthony Mackie), e Owen Eldridge (Brian Geraghty) sono i nomi dei tre arificieri che svolgono un ruolo operativo non inventato (lo spunto ai fatti raccontati è dato dai reportages del giornalista Mark Boal ), ma ciascuno di loro è, nel film, anche un personaggio eblematicamente significativo, in relazione alle domande che la guerra pone e alle risposte che ne possono derivare.
Owen Eldrige è dei tre il personaggio che meno riesce ad accettare la guerra: non ne capisce le ragioni, ha continuamente bisogno di un supporto psicologico, non vorrebbe sparare neppure quando diventa una inderogabile necessità e, allorché in barella e ferito sta per essere riportato negli Stati Uniti, rovescia sui suoi commilitoni l’odio impressionante che quella guerra ha sedimentato nel suo animo.
Il sergente Sanborn è, invece, un afroamericano, che nella squadra svolge una funzione di copertura: anche lui ha paura, ma non ne è ossessionato e si espone con prudenza; nel corso delle azioni in cui è impegnato, vediamo mutarne l'atteggiamento che è molto speranzoso all’inizio (quando ancora gli sembra di essere molto giovane per decidere di sistemarsi stabilmente e mettere su famiglia), e molto meno alla fine – e sono passati “solo”36 giorni, un’eternità, in mezzo a quei rischi – (quando esprime accoratamente la sua voglia di paternità, probabilmente il suo modo di rispondere alla morte sempre in agguato).
Dei tre la figura più interessante, però, mi pare quella del volontario William James, al quale possono essere riferite, forse, le parole della regista quando parla di guerra come droga.
William, infatti, è talmente assuefatto al pericolo, e talmente bravo nell’uscirne, da dare l’impressione di esserne attratto, di cercarselo, per così dire.
La parte finale del film, che evoca la sua vita da civile, padre e marito tranquillo negli Stati Uniti, contiene alcune sequenze significative della sua insensatezza, quella stessa di cui si compiacciono invece molti americani della middle class, che sono consumatori degli stessi prodotti-spazzatura (agghiacciante il piano sequenza nel reparto di un supermercato americano, degno delle corrosive rappresentazioni seriali di Andy Warhol), si sposano (mogli pienamente appagate nel realizzarsi come una mammine perfette) e diventano padri (figli circondati da coloratissimi giocattoli di plastica, emblematici del vuoto che contengono).
Da questo American Nightmare non è possibile, forse, altra via d'uscita se non quella disperata della droga o della guerra come suo sostituto, come se la scelta di stordirsi con le pericolosissime operazioni che porta a termine gli permettesse di tornare ad amare la vita. Non ha ancora perso, in fondo, del tutto la propria umanità: è tenero col piccolo Beckam; è paziente ed empatico, fin dov’è possibile, con l’uomo imbottito di esplosivo; è indulgente (e partecipe) con le paure e le intemperanze dei suoi commilitoni.*
Questa è l’impressione positiva che mi ha lasciato il bel film della Bigelow, ma in termini più generali mi chiedo se non contenga un’ambiguità di fondo, una domanda politica a cui la regista non risponde, cosicché questa visione mi ha solo parzialmente soddisfatta.
* Tornano alla mente le parole che Cristoforo Colombo, rivolge al proprio compagno di viaggio Gutierrez, nel dialogo dell’operetta morale leopardiana:
“Se al presente tu, ed io, e tutti i nostri compagni, non fossimo in su queste navi, in mezzo di questo mare, in questa solitudine incognita, in istato incerto e rischioso quanto si voglia; in quale altra condizione di vita ci troveremmo essere? in che saremmo occupati? in che modo passeremmo questi giorni? Forse più lietamente? o non saremmo anzi[…] pieni di noia?….
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