Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Una macchina da presa nervosa e adrenalinica e un montaggio serrato servono a Kathryn Bigelow per immergere lo spettatore nelle azioni di alcuni artificieri dell’esercito americano in missione in Iraq. Paesaggi lunari e macerie, la luce abbagliante del deserto e le apparecchiature ipertecnologiche dei soldati, la guerra sembra essere entrata in un regime di virtualità in cui le varie missioni ricordano quelle da eseguire in un qualsiasi war-game per consolle. L’effetto cinematografico e sensoriale creato dalla Bigelow è di tipo immersivo, senza distanze di sicurezza dall’evolversi e dall’esplodere dell’azione. Poche divagazioni stilistiche (alcuni slow motion), un ritmo capace di allentare e serrare la tensione narrativa ed emotiva in maniera esemplare, una rappresentazione della guerra che non vuole trasformarsi in riflessione etica ma che si concentra sugli elementi “filmici” insiti nella guerra stessa: esplosioni, situazioni estreme, dispositivi ottici e meccanici.
L’idea della guerra come droga, espressa nella frase che apre il film, si manifesta proprio nel tipo di partecipazione militare del sergente maggiore James, che sembra dannatamente a suo agio nelle azioni più pericolose, al limite del suicidio. L’adrenalina che scorre, il contatto diretto con la morte, i tempi che si dilatano, ogni particolare che assume importanza, questi gli elementi che creano dipendenza. La guerra dunque come espressione della massima vitalità umana, proprio nel momento in cui essa si trasforma in distruzione e pratica di morte. Il film della Bigelow diventa così una impressionante macchina ludica, in cui i soldati americani “giocano” a fare la guerra, riscoprendo quegli istinti primordiali, mediati però dalla tecnologia, che li trasportano su un piano sensoriale e percettivo in cui combattere diventa l’unico modo per accedere a stimoli e situazioni di ordine superiore rispetto a quelli della quotidianità (l'apparente ritorno alla vita familiare di James). Il rischio è di non potere fare più a meno di questi stimoli. The Hurt Locker è quindi un film che si occupa dell’azione dell’uomo in una situazione estrema, la guerra, cercando di cogliere con uno stile al limite del documentario i suoi atteggiamenti in questo contesto. La Bigelow volendosi troppo avvicinare ai vari elementi (umani, psicologici, di azione e rappresentazione) che mette in scena perde la distanza necessaria per vederli in un’ottica più ampia, quella della guerra intesa come strumento politico e soprattutto economico. La regista, come un’antropologa, studia sul campo l’essere umano in combattimento, ne rimane affascinata e turbata e costruisce un flusso di immagini di straordinaria potenza, una paradossale esaltazione della vita che nelle azioni di guerra trova una sua perfetta maniera di esprimersi.
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