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The Hurt Locker

Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film

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La recensione su The Hurt Locker

di mc 5
10 stelle

Di solito i film di guerra non mi vedono spettatore entusiasta, ma questo mi ha sbalordito per la sua asciuttezza e il suo rigore quasi documentaristico, catturando la mia emozione dal primo fotogramma all'ultimo, facendo sì che i lunghi 130 minuti della sua durata letteralmente volassero. Il film, che era in concorso all'ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia, è stato distribuito in un numero abbastanza ridotto di copie, e in effetti bisogna dire che non si tratta esattamente di una pellicola destinata ad essere apprezzata dal grosso pubblico delle multisale, per diversi motivi. Innanzitutto il film non presenta una trama precisa, non vi è raccontata una storia secondo i canoni consueti...Avete presente quegli "speciali" televisivi dove l'inviato trascorre (poniamo) una notte a fianco di una pattuglia della volante (o dei pompieri) filmandone da vicino ogni intervento operativo? Beh, più o meno qui funziona così, con la camera incollata ai componenti di una squadra di soldati americani (la "Bravo Company") di stanza in Iraq, il cui compito è quello di disinnescare bombe e ordigni esplosivi. Dunque si tratta di interventi delicatissimi, che richiedono, oltre ad una elevata preparazione tecnica, anche un grosso dispendio di stress e una buona dose di controllo emotivo. Infatti i "ragazzi", chi più chi meno, sono tutti coi nervi a fior di pelle, tutti pronti ad esplodere ad ogni minimo contrasto od imprevisto. Come già accadde ai reduci del Vietnam, anche i ragazzi operativi in Iraq danno un contributo di sangue ma anche in termini di umanità e di energie emotive, che supera ogni limite tollerabile. Ed è questo il segnale principale che si legge tra le pieghe di quest'opera che però -attenzione- per supportare questa tesi non utilizza nemmeno un grammo di retorica, la regista si limita a mostrare i soldati in azione, lasciandone trasparire attraverso le reazioni emotive il disagio, ma senza ricorrere ad espedienti "strappalacrime" nè ad artifici retorici. Sì, perchè sono le immagini a parlare, anzi a "gridare". E sono immagini di operazioni belliche condotte in modo scientifico, con tutti gli sviluppi imprevisti che sono impliciti in ogni azione di guerra, ma mostrate nella loro asciutta essenzialità, senza nessuna lezione morale impartita allo spettatore. Ora, va detto che questa osservazione quasi entomologica della guerra, questo mantenere freddamente le distanze dagli eventi mostrati senza condannarli apertamente, ha generato in alcuni l'equivoco di scambiare tutto ciò per esaltazione epica delle "gesta" dei soldati. Io la penso esattamente al contrario: cioè ritengo evidente che quelle immagini "ùrlino" da sole, nella loro scarnificata durezza, la più dura delle condanne all'intervento militare in Iraq, proprio perchè quei ragazzi ne escono malissimo, ne escono annientati, annichiliti, da persone che non sanno più chi sono e cosa sono diventate. E c'è una differenza non da poco col conflitto vietnamita: in quell'altra guerra i ragazzi venivano "sequestrati" alle famiglie e spediti in prima linea, mentre in Iraq si tratta di volontari. Nel film "Fahrenheit 9/11" Michael Moore ci mostrava efficacemente i meccanismi che possono spingere un giovane statunitense a partire volontario, ma qui, in questo film, si centra l'attenzione su un uomo, il sergente William James, che è il paradigma vivente dello spirito che anima molti volontari sul fronte iracheno. Accompagnato ad una buona dose di pura incoscienza, il motivo propulsore primario è il bisogno di adrenalina ciò che muove quest'uomo a non poter più fare a meno delle azioni di guerra. Egli ha la necessità (una vera dipendenza) di provare questo brivido, questa emozione di avvertire il fiato della morte che gli soffia sul collo. Che ci sia qualcosa di patologico, di malato, in una mente del genere? Ognuno la veda come vuole, ma secondo me decisamente sì. E a pensarci bene, anche in altri mestieri (o sport) che esulano completamente dalla guerra, è presente questo bisogno di vivere l'emozione del rischio estremo, ma sono psicologie talmente lontane dalla mia -improntata al comune buonsenso- che nemmeno mi ci provo ad analizzarle. Verso la fine del film, dopo oltre due ore di azioni belliche condotte sempre sul filo del rasoio e giocate come una partita con la morte, i soldati cessano la missione e fanno ritorno a casa, ognuno raccogliendo i pezzi sparsi di ciò che resta delle loro personalità forse alterate irreversibilmente. Ma il sergente James, no. Lui è fatto di un'altra pasta. E, sempre fermo restando che nel film non viene espresso alcun giudizio esplicito su di lui, egli si accorge che nella vita quotidiana (dalla spesa al supermercato alle coccole alla sua bambina piccolissima) non trova pace, non trova sè stesso, è chiaro che gli manca l'adrenalina del fronte, il sudore, la polvere, il pericolo. E' per lui un richiamo insopprimibile. E -lo ripeto perchè è importante- James non viene affatto raffigurato come un uomo malvagio o cattivo. Questo è il punto: mostrare come, in fondo, sia così naturale essere una macchina da guerra. Perchè tante migliaia di "soldati James" costituiscono un esercito di volontari che mai si porranno dubbi morali sulla legittimità o sulle conseguenze di un conflitto bellico di tale portata. Io credo che le immagini del piccolo Beckam che rincorre la sua palla, quegli occhi di iracheni che spiano dai loro balconi e finestre, e soprattutto quel kamikaze pentito che implora un aiuto, siano fotogrammi difficilmente cancellabili dalla memoria di chi vedrà il film. Un film che, dietro una distanza apparente, suona in realtà come un potentissimo atto d'accusa alla irragionevolezza di ogni guerra. Mi accorgo solo adesso, a recensione ultimata, che non ho mai citato la regista. Lo faccio ora, segnalando che Kathrin Bigelow rappresenta un caso singolare ed interessante di cineasta donna (..e CHE donna!..sembra una top model) che ama realizzare film sugli uomini, riuscendo piuttosto bene ad afferrarne i meccanismi psicologici. E questo accade, curiosamente, in un periodo in cui Hollywood sta sfornando con successo una serie di pellicole assolutamente insulse in cui ci vengono svelate psicologie femminili involontariamente grottesche (da "Sex in the city" a "The women"). E inoltre l'ottima Bigelow per molti di noi resterà per sempre legata al ricordo di uno di quei piccoli film che però un pò ti cambiano la vita, "Point Break": ogni appassionato di cinema non può dire di non esserne stato in qualche modo influenzato.
Voto: 10

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