Regia di Raffaele Verzillo vedi scheda film
Non basta il coraggio della denuncia. E non basta il merito di aver realizzato un’opera di utilità sociale. Il lodevole intento – sia pur coerentemente perseguito – di evitare le solite cadute nel buonismo e di presentare la realtà degli abusi sessuali sui minori in tutta la sua squallida crudezza, viene quasi totalmente vanificato da un completo appiattimento sugli stereotipi del poliziesco televisivo: una pigrizia narrativa che annulla ogni inventiva e riduce i personaggi ad inermi pedine di un gioco prevedibile e predeterminato. Surreale è la perversione del maniaco, così come surreale è l’ingenuità delle sue piccole vittime: tutto deve risultare funzionale ad un quadro schematico ed univoco, privo di sbavature, in cui ogni elemento svolge il proprio ruolo senza lasciare margini al dubbio, né aprire nuovi interrogativi. Tutto è risolto e spiegato fin dal principio, non aggiungendo nulla al risaputo: il pedofilo, il classico distinto e insospettabile professionista, è tale in conseguenza delle violenze subite durante l’infanzia, sua moglie sa tutto ma tace per non perdere colui che ama, i bambini che cadono nella trappola dell’uomo sono spesso figli di famiglie disgregate, e così via. Sullo sfondo di queste semplificazioni, si innesta l’indagine congiunta di un affascinante commissario di polizia ed una giovane ed avvenente psichiatra, tra i quali, fatalmente, dopo le iniziali divergenze di vedute, scoppierà la scintilla della passione; e la loro investigazione, dopo una lunga fase di stallo, giungerà infine alla svolta decisiva con un’improbabile combinazione di colpi di scena. Queste cadute nell’ordinario registro del sensazionalismo spicciolo mal si conciliano con la serietà dell’argomento: dispiace davvero che la prima opera italiana ad affrontare un tema così doloroso e delicato sia poco più che un ordinario thriller casalingo.
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