Regia di Kevin Macdonald vedi scheda film
Il nemico del mio nemico è uno di quei documentari che partono dall’uomo per raccontare la Storia, dal particolare per cristallizzare in immagini l’universale. Dal passato per gettare luce sul presente. Kevin Macdonald - già regista di Un giorno a settembre e L’ultimo re di Scozia - sceglie di mettere in scena Klaus Barbie, capo della Gestapo a Lione condannato nel 1987 all’ergastolo per crimini contro l’umanità, per parlarci invece di Klaus Altmann e di un frammento della Storia taciuta del Ventesimo secolo. La Seconda guerra mondiale è linea di confine, la ricostruzione inizia lì per andare alla scoperta di altre scomode verità, più vicine a noi nel tempo. È dopo la guerra che si consumano le barbarie di questo reportage classico (voce narrante, immagini di repertorio, testimonianze), che si concentra sulle attività di Barbie dopo la cattura, quando cioè diventò un agente della Cia per i paesi che, durante il secondo conflitto mondiale, aveva combattuto. Il nemico del mio nemico è mio amico, come a dire che il fine giustifica i mezzi, e che il comunismo andava abbattuto con ogni arma disponibile. Nessun timore nel dirlo, né di sottolineare che oggi accadono le stesse cose in Iraq e Afghanistan, e che fu il Vaticano a fornire al “boia di Lione” i documenti per l’espatrio in Bolivia. Sulle Ande si trasferisce buona parte del film, Barbie diventa Altmann, lavora per i servizi segreti americani. Se ne parla senza mezze misure, parte per il tutto, rimarcando la ripetitività della Storia. Scorrono improvvise alcune immagini di Milano. Sono gli anni 70, e a imprenditori del terrorismo come Barbie Macdonald imputa con un’associazione di immagini gli attentati che allora colpirono l’Europa. La mente è già al presente, nonostante il documentario sia dedicato alla Cia, ai nazisti e alla Guerra Fredda. Al sostegno degli Stati Uniti ai talebani negli anni 80, a quello mostrato verso Saddam Hussein nello stesso periodo. Non si prova pietà per Barbie, ma disgusto per il mondo.
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