Regia di Pupi Avati vedi scheda film
Il colore è quello della memoria. Di vecchie fotografie ingiallite. Ma la tragedia che si consuma in Il papà di Giovanna è attualissima. Siamo nell’Italia della prima metà del Novecento, sullo sfondo s’intravedono le leggi razziali, lo scoppio della Seconda guerra mondiale, gli sfollamenti, la fame. Nel dettaglio, ci si misura con la storia privata di Michele, insegnante di liceo, Delia, una casalinga insoddisfatta, e Giovanna, ragazza piena di complessi, che un brutto giorno uccide la sua migliore amica per gelosia. La scelta di Pupi Avati è chiara: esplorare le pieghe più nascoste dell’animo umano. È l’assenza di morbosità di fronte al fatto di cronaca ad averci fatto amare l’avventura umana di Michele e Giovanna, estranea all’esposizione gratuita della violenza, aperta invece a ciò che di solito resta nell’ombra. Il regista bolognese cammina in punta di piedi, senza strafare. Poteva cadere, e non è caduto, di fronte a una vicenda così sensazionale, a volerla gridare. E invece, rivolge il suo sguardo all’interno, regalandoci un rapporto d’amore dannatamente coinvolgente, difficile da dimenticare. Silvio Orlando è un tenerissimo perdente, Alba Rohrwacher trasforma la purezza in ferocia nel tempo di un istante. Anche Ezio Greggio resta incastrato nella tela, rinunciando agli eccessi comici, e lasciandosi investire da un ruolo scomodo. È un poliziotto meschino ma non cattivo, un fascista per convenienza, che alla fine viene brutalmente assassinato. Qualcuno ha già sussurrato i termini revisionismo e storico. Ma questa è tutta un’altra storia e, se avesse voluto raccontarla, Avati avrebbe fatto un altro film. Non Il papà di Giovanna. Qui sono ben altre le sue preoccupazioni. Deve muoversi tra le difficoltà di un’adolescente con gravi problemi mentali, la premurosità eccessiva di un padre, lo scoramento di una madre che abbandona sua figlia per impotenza, responsabilità, colpa. Si può far male anche per il troppo amore. E il risultato è bello, toccante, dolorosissimo.
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