Regia di Pupi Avati vedi scheda film
La cecità che guida la gran parte dei rapporti interpersonali che quotidianamente viviamo: ecco il fulcro di questo dramma con un ottimo Orlando (coppa Volpi a Venezia) circondato da un buon cast, in cui sorprende il sobrio ruolo interpretato discretamente da Greggio - Avati aveva già tentato un esperimento similmente azzardato con Boldi in Festival. Il protagonista, come da titolo, è il padre, ma la vicenda ruota attorno alla malattia mentale e alle folli azioni della figlia; l'unica persona che non riesce a capirne la tragica portata è proprio il genitore, frustrato nelle proprie aspirazioni di artista e che pertanto vive ormai solo di un amore testardo, ottuso e ricambiato con altrettanta ottusità dalla figlia. Avati torna ancora nell'amata Bologna degli anni '30, quella della sua infanzia, ed imbastisce (nella sceneggiatura con il fratello produttore Antonio) una storia di piccoli personaggi ben caratterizzati e di sottili psicologie; la storia italiana (fascismo montante, leggi razziali, guerra e liberazione) scorre in sottofondo, leggera. Bel lavoro, forse solo un po' lento: il nodo della trama (l'omicidio, il manicomio) viene presentato nei primi venti minuti, poi la situazione perde ritmo. 7/10.
Negli anni '30 a Bologna un professore (frustrato) di liceo protegge e vezzeggia eccessivamente la figlia adolescente; la ragazza mostra segni di squilibrio sempre più preoccupanti, fino ad uccidere una compagna di scuola. Il tribunale la giudica malata di mente e la fa rinchiudere in manicomio, ma sul padre cade l'onta delle colpe della figlia.
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