Regia di Jean-Pierre Melville vedi scheda film
Nella piccola provincia francese di Besancon vive Barny (Emmanuelle Riva), una giovane vedova di origine ebrea e militante comunista che ad un tratto decide di entrare in una chiesa con lo scopo preciso di confessare al primo prete che gli capita a tiro il suo aperto ateismo, così, come se si trattasse di una mera provocazione. Ma si imbatte in Leon Morin (Jean Paul Belmondo), un prete colto ed intelligente che si esprime con un linguaggio semplice e comprensivo, capace di rendere credibile l’utilità del suo magistero e ragionevole l’adesione incondizionata ad una professione di fede. Sullo sfondo dell’occupazione tedesca della Francia e delle dispute politiche tra collaborazionisti e resistenti, Barny ha modo di frequentare sempre di più il prete, di leggere i libri che gli da in prestito e di instaurare un fruttuoso incontro intellettuale, di conoscere la fede e di riaprirsi alla vita.
Léon Morin, prete - Emmanuelle Riva e Jean-Paul Belmondo
Sono almeno due gli elementi di curiosità che emergono prepotenti sin dal primo approccio con “Leon Morin, prete”, uno è il fatto che un indiscusso punto di riferimento del polar francese (e non solo) come Jean Pierre Melville si sia cimentato col tema forte della religione cattolica con un taglio decisamente intellettuale, l’altro deriva dalla presenza di un Jean Paul Belmondo nella veste “insolita” di un prete tutto preso in serrate dispute dottrinarie quanto si è abituati a vederlo nelle calzanti caratterizzazioni di simpatiche canaglie o giù di li. L’esito complessivo direi che è buono, soprattutto se si considera che, dato il soggetto del film e vista la caratterizzazione fatta dei personaggi, un pericolo poteva essere quello di guardare al linguaggio cinematografico di un Robert Bresson (ad esempio) e rischiarne un cattivo utilizzo se solo si considera che alla sua poetica male si associa l’uso eccessivo del parlato che permea questo film. Invece, rimane un film di Jean Pierre Melville, nonostante le prime apparenze (del resto, qui come altrove, rimaniamo nel ventre problematico dell’esistenzialismo). La verbosità che caratterizza “Leon Morin,prete” si risolve in una messinscena che tende a far scorgere i moti dell’animo attraverso l’uso delle parole (l’esatto opposto di quanto avviene, appunto, con Robert Bresson), dove la gravità esistenziale dei personaggi è controbilanciata dalla chiarezza espositiva delle rispettive posizioni e dove le debolezze in essere della carne vengono superate da una dialettica dello spirito in continuo divenire. Azzardo a dire che Melville architetta un dramma di matrice religiosa utilizzando gli ingredienti tipici della sua poetica, prima appuntando l’attenzione sulla presunta riconoscibilità di ogni ruolo sociale (la presunzione di Barny di trovarsi di fronte la figura canonica di prete affatto aperto alle vicende del mondo somiglia alla lotta in armi tra gli agenti del crimine che presumono sempre di sapere come si comporterà l’avversario) e poi scompaginando il carattere di ognuno facendo leva sull’imprescindibile (onni)presenza del caso e sulla natura imprevedibile delle pulsioni umane più intime (il rigore morale di Leon Morin è parente molto stretto di quel rispetto di un particolare codice d’onore dei vari Maurice, Silien, Gu Minda, Frank Costello e i “senza nome). Barny crede di poter giocare coi fatti della fede allo stesso modo in cui crede di gestire senza problemi i propri impulsi sessuali, a suo piacimento e a suo totale favore, che siano per una donna o per un prete. Ma a Barny capita di imbattersi in una figura di prete totalmente inaudita che, non solo gli sconvolge un idea di partenza, ma la costringe anche a passare al vaglio la sua intera esistenza (“Ha l’aspetto e i modi di un militante. Cittadino prete, compagno reverendo, forse si atteggia così per sconcertarmi”, dice Barny al suo primo incontro con il prete). In effetti, Leon Morin è il tipo di prete che è “interessato più alla chiesa invisibile che a quella visibile”, più all’umanità composita bisognosa di farsi delle domande che all’ufficialità di un istituzione che dispensa risposte imparate a memoria. Dal loro incontro ne scaturisce un serrato confronto tra laicismo e fede e, tra i tranelli della carne che fortificano il rigore di determinate scelte morali e gli esiti intellettuali che tendono a giustificare un certo percorso di fede senza però apparire dogmatici, l’idea che si ricava è che al cospetto di un rinnovato umanesimo c’è spazio a sufficienza per ogni proficua istanza intellettuale (“Sei la persona più vicina a Dio che io conosca”, dice Leon Morin all’atea Barny). Jean Pierre Melville (di origine ebrea ma educato al cattolicesimo) tratta la questione con delicata sensibilità, dando l’idea di voler parlare più dell’ uomo che partorisce un idea che dell’idea che ne permea profondamente il percorso intellettuale. Non ci sono picchi cinematografici (la miglior sequenza è senza dubbio quella che si sofferma a ritrarre le poche cose in possesso del prete) e neanche gratuiti moralismi. Non certamente il miglior Melville, ma un suo film io mi sento sempre di consigliarlo.
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