Regia di Alexandre Bustillo, Julien Maury vedi scheda film
Siamo nel 2007. Nel 2003, Alexandre Aja stupisce tutti con Haute tension e riapriva i giochi per l’horror francese puntando su elementi precisi e vincenti: canoni slasher, turbamenti sessuali, iconografia rurale, boogeyman accattivante ed una nuova, rinvigorita e sensuale estetica splatter e gore. Nel 2004, dal vicino Belgio, Fabrice du Welz con Calvaire sembra confermare il rinnovato interesse degli autori francofoni per l’horror, puntando anche lui sugli elementi che hanno codificato il genere negli anni Ottanta e che vengono appunto riscoperti nei primi Anni Zero per contrasto con un decennio, i Novanta, di patinature o rivisitazioni metadiscorsive. Sempre del 2004 è Saint Ange di Pascal Laugier, un ghost movie di taglio classico, più vicino alla tendenza del momento – bambini fantasma che infestano case, orfanotrofi o videocassette – che alla ricerca di nuovi scenari e linguaggi. Il nuovo corso dell’horror d’oltralpe sembrerebbe comunque avviato. E infatti, poco dopo, tra A l’interieur, Frontière(s) (Xavier Gens, 2007) e Martyrs (Pascal Laugier, 2008), la critica sembrerebbe unanime a confermare la rinascita del cinema horror francese o addirittura la nascita di un vero e proprio genere endemico che poggia più sull’estetica torture porn che sull’atmosfera, sui moduli narrativi e sui codici di genere. Non è poi andata così.
Se infatti, ad oggi, il cinema della coppia Bustillo-Maury continua con successo a portare avanti la propria idea di horror, gli altri enfants terribles o hanno avuto battute di arresto, come Gens, o si sono reinventati registi a tutto tonto, ma con sempre uno occhio di riguardo per il fantastico e il perturbante, come Aja e du Welt, o sono restati fedeli al genere di riferimento con pellicole interessanti, ma altalenanti, come il caso di Laugier.
A l’interieur è un vero e proprio incubo classico, un racconto del terrore dalle fascinazioni letterarie, tutto basato sui moduli narrativi più riconoscibili del genere, dall’utilizzo efficace della traiettoria narrativa della home invasion e da immagini iconograficamente riconoscibili, come la presenza inquietante di uno sconosciuto vestito di nero (Beatrice Dalle). L’apporto di motivi splatter e gore eccessivi, estetizzati dalla cura per la ripresa e per l’immagine – inquadratura e fotografia – e il dettaglio profilmico, suggellano un’idea di terrore molto carnale che rievoca i tempi del body horror dei Settanta e Ottanta. Un’idea che in epoca liquida riacquista un alto potenziale rappresentativo facendo del corpo non solo l’unica realtà concreta percepita, ma anche l’oggetto del desiderio incontrollabile, dell’ossessione maniacale. Dal desiderio cannibalico a quello sessuale, passando per la pura brama omicida, l’anelo laido e ferale per il corpo, soprattutto l’altrui, supera l’ossessione scopica e sfocia nel sensibile. Smembramenti, mutilazioni, evisceramenti, squartamenti, deformazioni, mutazioni, malattie, infezioni e liquefazioni da una parte, nudi integrali, erezioni esibite, unsimulated sex scenes dall’altra, sono gli elementi caratterizzanti molti film del nuovo secolo, non necessariamente del terrore o pornografici. Da questo punto di vista, Tenemos la carne (Emiliano Rocha Minter, 2016) è l’esempio migliore di porn horror d’autore contemporaneo, finalmente sdoganato dopo che per decenni i titoli di Joe D’Amato erano stati condannati al circuito underground del cinema porno.
A l’interieur però, non è solo la nuova pietra angolare del body horror, che ha di fatto rilanciato, e non è nemmeno solo un film “bello da vedere”, come gli autori hanno più volte ricordato da quel 2007, ma è un film che adotta i codici perturbanti dell’horror carnale come contenuto e l’idea visiva di una favola nera come forma. Ovviamente, forma e contenuto si scambiano di ruolo regolarmente, si impreziosiscono l’una dell’altro, si integrano, si compenetrano e si influenzano a vicenda, reinventandosi lungo l’arco della pellicola, da motivi a tema, da tema a motivi, da figura a simbolo e viceversa. Il profilmico influisce il filmico e il filmico riproduce il profilmico estetizzato da fotografia e montaggio. In definitiva, un’opera visiva che va oltre il genere e si candida, più di Haute tension, più di Hostel (Eli Roth, 2005), a capostipite di un nuovo linguaggio orrorifico.
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