Regia di Henri-Georges Clouzot vedi scheda film
Morbosissimo noir tratto dal romanzo "Légitime defénse" di S.A. Steeman, "Quai des Orfèvres" è il ritorno alla regia di Henri-Georges Clouzot dopo il fraintesissimo "Il corvo" (1943), assurdamente accusato di collaborazionismo dalla sinistra dell'epoca per aver fornito un'immagine supinamente negativa della Francia (un po' come i rimproveri di disfattismo piovuti addosso, ma da destra stavolta, ai film del Neorealismo italiano). Come al solito Clouzot interpreta il genere in chiave sottilmente sociologica, sfruttando le atmosfere torbide e ambigue del noir per lanciare strali infuocati al perbenismo imperante. Nulla e nessuno è risparmiato dal furioso livore di questo ritratto in nero: la raccapricciante prepotenza dell'alta borghesia, l'opportunismo delatorio del ceto medio, l'arrivismo delle classi più umili, il colonialismo canagliesco della patria tutta. Un impressionante vuoto morale vissuto nella più totale indifferenza. Donde la sordida immagine urbana, popolata da figure anonime, a testa bassa, immerse nell'ombra. In questo grigio inferno quotidiano, la seducente cantante di music-hall Jenny (Suzy Delair) cerca di sfondare nel mondo del cinema avvalendosi della concupiscenza del laido ma influente Brignon (Carles Dullin). Il possessivo marito Maurice (Bernard Blier) non è d'accordo e, in preda a un tremendo raptus di gelosia, si precipita a casa di Brignon armato di pistola. Ma una volta arrivato qui trova il ripugnante Brignon accasciato al suolo con la testa fracassata. Chi lo ha ucciso? Per quale motivo? Si scatenano le indagini dell'ispettore aggiunto Antoine (Louis Jouvet), squallido tutore dell'ordine animato da un infallibile esprit de géométrie. Affidando alle luci di Armand Thirard il compito di creare un clima figurativo dominato da contrasti e chiaroscuri, Clouzot riserva tuttavia immagini di sfacciata luminosità per esaltare il provocante erotismo di Jenny Lamour e l'accecante desiderio coltivato per lei dalla migliore amica del marito, la bionda fotografa Dora (Simone Renant). Splendida soluzione visiva per comunicare obliquamente una tensione erotica altrimenti inconfessabile. Ma il profilo psicologico più sofferto e toccante è quello dedicato a Maurice Martineau, marito completamente dedito al culto della sua Jenny, divorato dalla gelosia e vittima di un retaggio mentale imprigionante, quello della normalità. Il male si disegna sul suo volto bianchiccio come ombra inesorabile, la consapevolezza di essere schiavo di convenzioni alienanti non gli è concessa: sente l'ingiustizia franargli addosso come un evento naturale. Solo, sepolto sotto un senso di colpa che si mescola micidialmente alla fatalità, vede una sola via d'uscita all'infelicità: il vetro dell'orologio in frantumi, il suo polso, le vene... Un noir meraviglioso, molto più malato del successivo "I diabolici" (1955), molto più malvagio del precedente "Il corvo", nonostante il finale codardamente consolatorio.
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