Regia di Eran Riklis vedi scheda film
In questo momento storico e politico parecchi di noi hanno particolarmente apprezzato e recepito come "necessario" un film come "Valzer con Bashir". Inutile spiegare il perchè: proprio ora sto ascoltando alla radio che Israele ha rotto quella precaria tregua (peraltro stabilita unilateralmente) che era in atto. Che tristezza infinita di fronte a tanto stupido orgoglio, a tanta irragionevolezza, a tanta ordinarietà attribuita ad un massacro. Ebbene, ho ritenuto di dover recuperare questo gioiellino di film uscito a metà Dicembre e giunto dunque agli ultimi giorni di programmazione, perchè -pur con stile assolutamente differente- proprio come "Bashir" porta il suo contributo ad un auspicio di dialogo e di intesa fra quei due popoli. E, guarda caso, anche Eran Riklis, proprio come Ari Olfman, è israeliano, un altro israeliano illuminato e -se Dio vuole- ragionevole e dotato di capacità di analisi serena che prescinde da prese di posizione esaltate o fanatiche. E trovo semplicemente meraviglioso che esistano artisti, attori, registi e intellettuali (in questi due casi israeliani, ma voglio sperare ce ne siano anche di palestinesi) che diano un loro contributo al dialogo e contro ogni forma di estremismo fanatico. Non posso poi esimermi da una mia consolidata abitudine: complimentarmi con la "Teodora Film" dell'ottimo Vieri Razzini, giovane società che distribuisce film, per averci, ancora una volta, dato l'occasione di vedere un prodotto valido, piacevole e necessario (Dio benedica queste piccole "case" indipendenti, per la funzione culturale che svolgono!). Per chiudere questa piccola parentesi "di cortesia", vorrei segnalare una notizia minima ma significativa della sensibiltà culturale degli amici della "Teodora", che hanno offerto l'intero incasso di una giornata di proiezione de "Il giardino dei limoni" a favore della causa del quotidiano "Il Manifesto", ormai da tempo in stato di crisi. La storia narrata è piuttosto semplice e la riassumo brevemente anche se molti la conosceranno già per averne letto su riviste e quotidiani. Una vedova palestinese ha ereditato dal padre un giardino di limoni che è il suo orgoglio. Ma nella villa accanto alla sua casa viene ad abitare, con la famiglia e con la scorta, addirittura il Ministro della difesa d'Israele, il quale individua subito in quell'agrumeto un potenziale nascondiglio strategico per i terroristi e dunque ne decreta l'eliminazione. La vedova, donna forte e piena dignità, si oppone con forza, ma di fronte ad un muro di ottusità (un muro anche materiale, visto che poi l'agrumeto verrà recintato) è costretta a ricorrere al supporto di un giovane avvocato, tenace ma con qualche risvolto ambiguo; costui s'invaghisce della vedova e un pò la illude con le sue attenzioni, ma in realtà il giovane legale ha un piano: affidare alla soluzione del caso la funzione di trampolino di lancio per la sua carriera, qualcosa da poter sfruttare politicamente per la sua ambizione. Entra poi in ballo il personaggio della moglie del Ministro israeliano, un bel ruolo di donna "illuminata" e combattuta fra il bisogno di giustizia e l'impotenza a cui il proprio status la condanna. Bellissimo il personaggio della protagonista, splendidamente interpretato dall'ottima Hiam Abbass, che già ci aveva convinto ne "L'ospite inatteso". Si tratta di un'attrice che, pur dotata di un volto non bellissimo secondo i consueti canoni estetici hollywoodiani, tuttavia emana un fascino nobile, comunica una femminilità matura e trattenuta che genera un potere seduttivo tutto particolare. E' una di quelle donne mature per le quali Hollywood non avrebbe più spazio nè ruoli, ma per fortuna nella cinematografia israeliana la Abbass ha ancora piena ed acclamata cittadinanza. Ciò che più emerge (come era intendimento del regista) dalla pellicola è la vischiosità, inutile ed ottusa, di una burocrazia militare alimentata dal sospetto e dalla diffidenza, che sono elementi fondamentali in ambito di cultura di guerra. I militari presenti nel film non vogliono sentire ragione,
non ascoltano nessuna voce che provenga dalla ragione, loro pensano e prendono decisioni (irrevocabili) solo sulla base di codici e regolamenti. Praticamente un muro. Come un muro è la guerra, che riesce -sulla base di una logica di conflitto permanente- a dividere le persone, le idee e perfino i terreni, come questo agrumeto. Nel film non c'è neppure un solo uomo che ci faccia una bella figura. L'avvocato, per il quale qualunque copione avrebbe ritagliato una figurina da eroe, alla fine invece fa una scelta che lascia parecchio amaro in bocca, e di cui non rivelerò ovviamente nulla. Pessima anche la figura degli uomini della comunità palestinese cui la vedova appartiene: invece di sostenerla, l'aspetto che pare preoccuparli di più è che le attenzioni di cui l'avvocato la circonda, data la differenza d'età, siano moralmente riprovevoli...al punto che un esponente di questa comunità le lancia una specie di "avvertimento" a comportarsi secondo criterio. Per non parlare poi del Ministro israeliano, summa di tutte le peggiori deformazioni e pregiudizi di stampo militare-autoritario. Ma ecco che, in questo panorama umano avvilente, emerge un barlume disperanza, che la sceneggiatura affida alla sensibilità delle donne, il cui appellarsi al buonsenso e alla ragionevolezza dei sentimenti più elementari è l'unica via d'uscita nell'ambito non solo del contenzioso legale su un agrumeto, ma, in senso più ampio e metaforico, nell'ambito della guerra. E' una tesi già battuta da altri, quella della sensibilità femminile come antitesi ed antidoto rispetto al conflitto, e che mi sento di condividere. Pensiamo infatti un attimo a come le immagini di guerra giungono ai nostri occhi: alla televisione ci capita spesso di vedere donne che gridano ed invocano gli dei intonando litanìe di dolore, mentre camminano in mezzo a cadaveri e macerie. Quelle immagini ci dicono che le donne sono le prime vittime di ogni guerra, anche perchè le guerre sono decise, fatte e volute dai maschi (è incontestabile). Altro aspetto (suggestivo ed intrigante) che emerge dalla visione: la comunicazione a distanza fra le due donne; esse non si parlano mai direttamente, ma tramite sguardi che si incrociano e scelte che si fanno. Fra loro si stabilisce una strana intesa fatta di parole non dette: sì, perchè è nella natura delle cose che laddove gli uomini sono divisi da ideali e religioni, quelle due donne hanno nel loro buon senso almeno un elemento che le unisce, qualcosa che nessun codice militare riuscirà mai a piegare. Qualcosa che rappresenta quella Speranza di cui c'è più che mai bisogno in tempi di guerra. A differenza di "Bashir" che anche in Israele ha avuto enormi riscontri ufficiali, questo film in patria è stato un flop clamoroso. E anche su questo si potrebbe riflettere. La mia opinione è che gli israeliani non abbiano mandato giù la critica, implicita nella vicenda, ad una società patriarcale che perpetua una condizione di sudditanza femminile. Certe tradizioni culturali sono dure a morire. Ci vogliono secoli, a volte. Questo è un piccolo film, neppure memorabile se vogliamo esprimere un giudizio tecnico, ma che ha il pregio di parlare al cuore di chi lo guarda. E di lasciare, nel cuore, un segno. Secondo me non è poco.
Voto: 10
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