Regia di Angelo Antonucci vedi scheda film
Un film dai valori contrastanti. Pessimo sotto il profilo estetico. Ottimo per le intenzioni delle verità storiche che riporta a galla.
Per questo il giudizio è sufficiente: magari eccessivo, ma dei meriti la pellicola, prodotta anche dal Ministero dei beni culturali, li ha. Fra l’altro, si era nel 2006: non c’era certo particolare spazio per la contestazione (come nemmeno oggi), che qui viene mostrata in modo serio. Basti dire che l’incubazione politica sarà avvenuta durante la legislatura 2001-2006, quella del più lungo governo di Berlusconi: qualcosa di strano, per un’opera che ha una sua serietà storica e una sua dignità democratica.
Veniamo ai pregi. Che ci sono, pur non tanti. Soprattutto nella lettura storica, basata su una prospettiva davvero democratica, quella della sete di uguaglianza e giustizia per tutti. Infatti la secolare ingiustizia nobiliare al sud, qui quella spagnola, viene mostrata per quello che è: sfruttamento di una terra ricchissima senza nessuna prospettiva sagace e onesta, se non quella del mantenimento della ricchezza spropositata dei nobili – senza vedere come reale pericolo la crescita delle potenze atlantico-protestanti.
Splendido è il finale: sfilano tuti gli attori del film, in una scena del tempo in cui questo uscì: tutti dietro a uno striscione, a protestare per la giustizia sociale e salari dignitosi, che mancano oggi al sud come circa quattro secoli prima, l’era dei fatti narrati (1647).
La lettura storica poi nel complesso è corretta. I costumi sono ben fatti. Il cast non è male.
Ma veniamo ai difetti. La produzione è rudimentale: di un teatrale spinto – anche per la limitatezza del budget, sembrerebbe -. Il che va letto in senso negativo per più versi.
Innanzitutto le scenografie sono misere.
Poi, per una vicenda popolare che si sarebbe prestata a numeri da kolossal (Napoli era la città più popolosa d’Europa nel ‘600, dopo la sola Istanbul, che europea però lo è solo in modo periferico), le scene più nutrite di popolo sono sempre troppo striminzite.
Il cast ha un suo valore: ma è costretto a una recitazione straordinariamente convenzionale. Tutti i cliché della recitazione partenopea – che vanta di suo numerosi pregi, peraltro -, sono qui sfruttati: ma specialmente in un modo commerciale. Ciò si vede anche, ma non solo, nella storia d’amore tra il protagonista e la moglie: appiattita davvero su stilemi tipici del neomelodico, della sceneggiata napoletana più volgare, come pure altri tratti dell’opera di Antonucci, eccessivamente di maniera.
Ma un altro pregio va ricordato: quello sociologico. Sono ricordati aspetti tipici della realtà campana: l’eccessivo ricorso alla superstizione religiosa (la grazia della Madonna…). La sottomissione all’autorità cattolica. Ma anche l’atteggiamento spaccone, un po’ arrogante, troppo incline tanto a colpire sull’apparenza, quanto a fuggire dalla verificabilità: interessante che ciò accomuni tanto i potenti quanto i plebei raffigurati. Che qui hanno “pochi giorni di gloria” per essersi guadagnati il potere. Anche con mezzi truci: e qui la sceneggiatura ha buon gioco, nel non fare sconti alla realtà, sulla violenza delle lotte sociali.
Un film tecnicamente brutto, ma utile a vedersi per la pagina di storia che ci ricorda: quella dell’unica rivoluzione popolare italiana. Se è vero che il Risorgimento ha visto la vittoria dai piemontesi nell’interesse misto soltanto di monarchia, nobiltà e borghesia, e che i popolari veraci, cioè soprattutto i mazziniani, hanno perso in modo drammatico, beh: effettivamente questo episodio è straordinario, purtroppo. Infatti la storia mostra gli italiani come incapaci di farsi valere contro i soprusi della classe dirigente economica. Questo è stato uno dei pochi episodi in cui, seppure per poco tempo, nella nostra penisola i tanti non-ricchi hanno potuto condizionare un po’ i pochissimi ricchi. Nel secondo millennio dopo Cristo, forse un successo del genere si è avuto solo con la rivolta dei Ciompi a Firenze nel 1378. Ma sempre un insuccesso, alla fine. Sempre fiorita in un contesto terribile di crisi economica, qui quello del ‘600.
E’ stranissimo - ma solo fino a un certo punto – che Masaniello non abbia ispirato nessun film, oltre a questo - almeno a qaunto so io,che qualche ricerca in merito l'ho fatta-. È una storia romanzata perfetta, le cui potenzialità in questo film sono sfruttate sono in parte:
- un analfabeta che, per i propri meriti di rivendicazione di giustizia per tutti, diventa capopopolo, fino a farsi riconoscere come interlocutore alla pari dal viceré (che rappresentava là allora un potere come fosse quello americano oggi);
- la sua pazzia, molto probabilmente indotta attraverso un allucinogeno, la reserpina – l’unico modo che permetterà di mettergli contro il popolo che fin lì lo idolatrava;
- la brevità dei fatti narrati – appena due settimane -, che permette un racconto assai denso e intenso;
- la storia d’amore, con una moglie che tratta alla pari con la moglie del viceré.
Insomma, una decente e tragica lettura del destino del popolo italiano: che si è fatto eternamente vessare da potenti sfruttatori di varia natura.
Allora – come mostrava Manzoni col suo romanzo sugli stessi tempi, quelli della Guerra dei Trent’anni – come purtroppo anche oggi.
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