Regia di Joel Schumacher vedi scheda film
“Nei primi anni trenta, Adolf Hitler e i suoi più stretti collaboratori furono ossessionati dall’occulto, credendo che la magia nera fosse la chiave per ottenere il dominio sul mondo intero. Agenti nazisti furono inviati in tutto il mondo alla ricerca delle antiche reliquie nordiche conosciute come pietre runiche. Credevano che se fossero riusciti a controllare i poteri di quelle pietre, nulla avrebbe potuto fermare la marcia della razza ariana. Credevano che i simboli incisi in quelle pietre descrivessero il cammino verso l’immortalità." Si apre (e si chiude) con questa informazione “Town creek” (conosciuto anche come “Blood creek”), piccolo film di Joel Scumacher, prodotto dalla specialista Lionsgate e non ancora distribuito in Italia. Bisogna riconoscere che le premesse sono quanto meno curiose, anche perché il connubio nazismo/occulto non mi pare sia mai stato troppo frequentato dal cinema (ammetto però la mia ignoranza in materia). E i primi quaranta minuti del film, quando il regista lascia sapientemente la vicenda avvolta in un inquietante mistero, sono senza alcun dubbio intriganti ed efficaci, pur nelle convenzioni narrative del genere. Un rapido incipit in bianco e nero negli anni trenta con l’arrivo, alla fattoria dei signori Wollner, dell’agente nazista Richard Wirth. Costui sostiene che “Colombo fu un imbroglione”, perché 300 anni prima degli spagnoli quelle terre furono scoperte dai suoi antenati finlandesi che, prima di essere cacciati dagli indiani, lasciarono come testimonianza del loro arrivo delle pietre runiche. Ora nella fattoria dei Wollner si trova proprio una di quelle pietre, fondamentale per il suo progetto verso l’immortalità: “I nostri antenati padroneggiavano il sangue e quando padroneggi il sangue, la morte non è più la fine!” dice Wirth alla piccola Liese Wollner, prima vittima del suo folle piano. Salto temporale ai giorni nostri. Il giovane e iper attivo infermiere Evan Marshall vive con l’anziano padre malato che gli rimprovera brutalmente di essere il responsabile della scomparsa di suo fratello maggiore Victor, eroico reduce dall’Iraq, di cui si sono perse le tracce due anni prima a Town Creek. Evan è convinto che il fratello sia ormai morto (non a caso ha fatto già mettere una lapide nel cimitero cittadino), ed ogni volta che può, nonostante lo stress del lavoro, va dai suoi nipotini per stare loro vicino e regalare qualche momento di felicità. Una notte si rifà vivo improvvisamente il fratello Victor, con barba e capelli lunghi, tutto sporco, sanguinante e ferito: Victor gli chiede aiuto pregandolo di non fargli domande e lo invita a prendere alcune armi e a tornare con lui a Town Creek. Presa una barca, i due fratelli si dirigono proprio verso la fattoria dei signori Wollner, dove Victor è stato imprigionato e torturato nei due anni precedenti. Ora l’uomo, con una furia incontrollata, scatena tutta la sua rabbia e sete di vendetta contro i componenti di quella famiglia, mai invecchiati da quel lontano 1936: uccide il primogenito e imprigiona moglie e figlia. Evan chiede invano ripetute spiegazioni al fratello che, nel frattempo cerca con ansia e preoccupazione il vero responsabile delle violenze subite. Nella notte il mistero troverà un terribile chiarimento e i due fratelli, asserragliati nella fattoria, dovranno combattere contro un apparentemente immortale Richard Wirth, l’agente nazista del prologo, in perenne ricerca di sangue umano per non essere “toccato dallo scorrere della vita”. Meno patinato, pretenzioso e furbo di altre recenti inguardabili opere del regista (su tutte “Number 23”), “Town creek” si affloscia proprio con il ritorno in scena del personaggio di Wirth, sorta di super uomo vampiresco a cui le fucilate fanno solo il solletico. Schumacher, che torna ai temi vampireschi dopo il simpatico “Ragazzi perduti” crea una tensione sporca e robusta, grazie ad una macchina da presa mobilissima (la sequenza del cavallo sbizzarrito all’interno della casa ha una sua frenetica potenza), ad una fotografia di spessore, ad un montaggio velocissimo e ad un’ambientazione risaputa (la consueta fattoria sperduta tra i campi) eppur incisiva. Peccato che tra cavalli e cani zombi (gli animalisti si tengano alla larga), resurrezioni improvvise, copiose dosi di sangue, evitabili ingenuità (Evan che esce dalla fattoria per recuperare la borsa dei medicinali proprio mentre fuori si sta scatenando l’inferno, il modo in cui il nazista si fa fregare nel finale, salvando Victor da morte certa per andare ad abbeverarsi da Evan e firmando in questo modo la sua condanna), lungaggini e ripetizioni (il personaggio di Luke, l’ultima vittima sacrificale del nazista la cui risurrezione è del tutto superflua), violente e prevedibili rese dei conti, il film non si discosta molto dagli standard odierni del genere. La noia è comunque bandita e, se si prende “Town creek” per quello che è, una baracconata rumorosa ma vivace, un onesto b movie senza inutili ambizioni né particolari sorprese con il solo obiettivo di un intrattenimento di grana un po’ grossa ma non disprezzabile, con rimandi evidenti a molti classici del genere (a me più volte è tornato in mente “Non aprite quella porta” di Tobe Hooper, forse riferimento obbligato per simili prodotti), ci si può pure divertire, anche perché i poco conosciuti attori stanno al gioco con una certa credibilità. Chi non ama il genere, invece, è opportuno si astenga. Finale aperto sfacciatamente a un possibile sequel. Nonostante qualcuno abbia scritto che “Schumacher è alla frutta e forse si è anche già alzato dal tavolo”, penso che nella più che altalenante filmografia del regista, questo film sia uno dei risultati meno nefasti. Scritto malino da David Kajganich (“Invasion” con Nicole Kidman, l’altro suo non esaltante copione), ma sembra che la sceneggiatura sia stata rimaneggiata dallo stesso Schumacher. Girato interamente in Romania.
Voto: 5 e mezzo.
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