Regia di Gregory Hoblit vedi scheda film
Personalmente penso che i film sui serial killer dovrebbero essere banditi per almeno vent’anni dagli schermi, il tempo minimo necessario per rinnovare e riscrivere completamente lo stitico e statico immaginario del genere. Gregory Hoblit è un onesto artigiano che nel thriller e nel giallo fino ad ora era riuscito a barcamenarsi con discreta efficacia ottenendo quasi sempre risultati dignitosi. Con questo “Untraceable” purtroppo tocca il fondo. E’ puerile pensare di valorizzare una materia narrativa così trita e ritrita, con ovvie, vecchie e ridondanti riflessioni sul macabro, perverso e sadico voyeurismo di un pubblico in cerca di emozioni sempre più forti (le motivazioni del killer sono da latte alle ginocchia per quanto sono forzate e semplicistiche). Bertrand Tavernier nel 1980 con “La morte in diretta” aveva già detto tutto ed in largo anticipo sui tempi: così infatti sentenziava lo spietato e spregiudicato direttore di rete nel film: "Guarda come temiamo la morte. E' la nuova pornografia. La nudità non sconvolge più!". E anche Alejandro Amenabar con la sua formidabile opera d’esordio “Tesis”, per citare un film più di genere, aveva trattato il tema con lucida e dirompente efficacia (penso alla sequenza finale del film, quando la tv manda in onda in diretta le immagini di uno snuff movie catalizzando l’attenzione di un pubblico letteralmente catturato). Senza dimenticare Cronenberg e il suo “Videodrome”, giusto per citare i primi tre esempi che mi vengono in mente. Tv, cinema o internet poco cambia: certo oggi con la rete tutto è più rapido e a portata di mano, ma la solfa è sempre la stessa. Di nuovo in questo film, se così si può dire, c’è solo un ruolo attivo dello spettatore che non si limita ad essere passivo osservatore: infatti più contatti avrà il sito incriminato più rapida sarà la morte della vittima ripresa, perché come dice l’assassino “tutto il mondo vuole vederti morire e non ti conosce nemmeno!”. Il risultato è deprimente. La tensione è nulla, gli sviluppi meccanici e prevedibili, i caratteri inconsistenti, le improbabilità a getto continuo (tralasciando i diversi marchingegni di tortura studiati dal killer per giustiziare le sue vittime, credo evidente rimando alla saga di “Saw”), la morale stantia (ad un certo punto il detective si domanda angosciato “Da quando il mondo è impazzito così?”). Con l’aggravante che l’identità del killer viene rivelata già a metà film, per cui anche il possibile effetto sorpresa viene a mancare. La confezione non è da buttare ma ci mancherebbe altro!!! Spiace per Diane Lane, attrice per la quale ho sempre avuto un debole, la quale si sforza di dare spessore ad un personaggio che purtroppo non ne ha (giovane vedova che, per il troppo lavoro, trascura la figlioletta tanto da abbandonare persino la sua festa di compleanno). Diane, a differenza del resto del cast piuttosto anonimo, sembra anche credere alla storia ma il film è talmente modesto, inconsistente ed affrettato che può fare davvero poco per risollevarlo dal nulla. Del resto la sceneggiatura, oltre che dagli esordienti Mark Brinker e Robert Fyvolent, è firmata da Allison Burnett, già responsabile dello sciagurato “Autumn in New York”. Degno de “Il cartaio”. Trascurabilissimo.
Voto: 3
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