Regia di Fabrice Du Welz vedi scheda film
“Vinyan” è – dopo “Apocalypse Now” – l’opera cinematografica più vicina a “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad: anche qui veniamo trasportati in un viaggio, dove la cupa e umida profondità della giungla diventano specchio del lato più nero dell’animo umano, facendosi nel contempo portavoce di una tragedia collettiva: la guerra in Vietnam nel film di Coppola come lo tsunami del 2004 nel film in analisi.
Ma non c’è assolutamente solo questo nel film di Fabrice Du Welz; c’è soprattutto una perdita, resa (visivamente e simbolicamente) in maniera magistrale fin dalla sequenza di apertura, dove forme scure si mescolano in un’acqua che si tinge progressivamente di rosso.
Prenderà poi avvio la ricerca di un figlio nei luoghi più remoti e insidiosi del globo, attraverso terre dai riti e dalle usanze ancestrali, foreste devastate che accolgono i volti di bambini dimenticati dal tempo, la cui disperazione dello sguardo non può che rispecchiare quella della protagonista.
Fin dall’inizio di questa ricerca, il comportamento apatico del personaggio interpretato da Emmanuelle Béart (bravissima) è sintomo di una speranza che al contempo è paradossalmente una consapevolezza dell’inutilità della speranza stessa. Eppure, al contrario del marito – convinto ormai dell’impossibilità di ritrovare il figlio – lei insiste nel perseverare nel cercarlo.
Mano a mano però che ci si addentra nel “cuore di tenebra”, il figlio perduto cessa – per lei – di avere un volto (da qui l’angosciante sequenza dei visi deformi dei bambini della giungla).
Ho detto “per lei”: la chiave di lettura del film sta infatti tutta qui, e soprattutto nel finale dove la Béart accusa il marito di “aver lasciato andare” il figlio. Tale frase non s’ha da intendersi come un intento di incolparlo per la scomparsa di Joshua, bensì come un’accusa per aver rinunciato fin dall’inizio alla speranza di trovarlo.
Alla fine non rimarrà altro che l’ancoraggio ai volti di quei bambini a loro volta (s)perduti, nei quali la protagonista riconosce (vuole credere di riconoscere) Joshua, e non resterà che lasciarsi andare ad un abbraccio (quello finale), ad un abbandono alla vita, sprofondando in quella dolce tenebra che potremmo definire come la “pace della (nella) rassegnazione”, fatta della stessa materia di cui sono fatti gli incubi, senza che vi sia più alcuna possibilità di emergere.
“Vinyan” è un’elegia sui luoghi neri dell’anima, un poema visivo dove l’ambiente circostante non è che la materializzazione di tutta l’afflizione e la frustrazione propri di un cataclisma esteriore (il male e la devastazione causati dallo tsunami) quanto interiore (il dolore di una madre), rendendo costantemente esplicito quanto – all’interno del film – questi due siano in fondo speculari.
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