Regia di Jonathan Levine vedi scheda film
Uno psichiatra capellone e il suo paziente un po’ sfigato, entrambi indomitamente refrattari al rispetto del conforme, sono in un certo senso gli elementi prioritari che rappresentano il baricentro del film sapientemente costruito da Jonathan Levine (sua anche la sceneggiatura, con molte battute al fulmicotone) e vivificato da un team di attori che
Le immagini cominciano a scorrere sullo schermo… e siamo subito “riportati indietro nel tempo” dalla straordinaria colonna sonora (così fondamentale anche per la storia) che costituisce il “tessuto musicale” del film… R. Kelly… Nas…Wu-Tang Clan… A Tribe Called Quest… Biz Markie e davvero molto altro ancora da ascoltare per “illanguidirsi” nel ricordo: catapultati direttamente nella lontana, afosa estate del 1994 “dentro” la Grande Mela (la città di New York degli anni infausti della troppo prolungata e mai sufficientemente vituperata “era Giuliani”, quella della tolleranza zero che ha fatto ahinoi scuola e proseliti), che rappresenta appunto il momento e la scena degli avvenimenti… e sembra quasi preistoria (non per i fatti narrati, però, poiché i temi rimangono di assoluta, immutata attualità, né tantomeno per la “storicizzazione” ironizzata dell’epoca, visto che gli effetti devastanti di “quel” pensiero “perbenista” persistono immutati proprio nell’idea diventata predominante della “moralizzazione” assoluta dell’esistenza, elaborata con i metodi coercitivi che ben conosciamo, che è stata persino esportata un po’ dappertutto con un lavoro certosino di condizionamento mentale, a imperitura memoria di una concezione “oscurantista” di intendere la vita, il benessere e la convivenza che ci sta sempre più “contaminando” e ci ha fatto diventare un po’ tutti meno positivi, “comprensivi” e disponibili di quanto lo eravamo una volta). Quel “preistoria”, si riferisce allora principalmente alla tecnologia esibita: 15 anni soltanto di differenza, ma che hanno “sconvolto” il mondo della comunicazione e della “fruizione”come forse mai era accaduto prima, per lo meno in tempi così ristretti, con l’affermazione “accelerata” di cellulari multifunzionali sempre più “futuribili”, o con l’archiviazione definitiva delle musicassette che a qualcuno potranno apparire adesso quasi dei reperti archeologici, ma che rappresentano, per chi ci ha “sguazzato dentro”, altrettanti elementi utili per sollecitare la “nostalgia” attiva della memoria di chi era giovane (o soltanto un po’ più giovane, come nel mio caso) quando eravamo “fermi” a quel punto, una distanza “epocale” che ha esaurito la speranza, capace di farci percepire il baratro nel quale stiamo - anche qui da noi - non tanto lentamente, precipitando. Questa è ovviamente soltanto la cornice”, comunque importante e basilare proprio per il momento storico che rappresenta e nel quale potremmo persino “specchiarci”, visto che – come ho già accennato sopra - è proprio quel “modello” che viene preso ad esempio per le italiche “devianze protezionistiche” di questi anni, uno “schema” che non prevedeva (e non lo vuole fare nemmeno adesso) né esuberanze né eccessi, all’interno del quale ogni “diversità” era (è) ufficialmente bandita… o meglio perseguitata e “sanzionata” pesantemente… poiché persino essere barboni (o non essere “omologati” per esempio nei comportamenti, ma anche semplicemente nel colore della pelle), costituiva (costituisce) più che una colpa, un reato vero e proprio, nel “perbenismo imperante” dell’apparenza, e per questo punibile con la carcerazione… figurarsi il graffiterismo, la droga, le libertà individuali troppo esposte e provocatorie, tutto quello che insomma poteva (può) creare “disordine” nel lindore “candeggiato” ostentatamente pubblicizzato del ritorno all’ordine totale e assoluto della “tranquillità di facciata” (poiché come già accadeva ai tempi del proibizionismo, sotto il tappeto invece… ma l’importante è “salvare l’apparenza” e mostrare il polso duro dell’arroganza… il resto è davvero ininfluente e secondario). Ma tornando tornare a parlare del film in quanto tale, posso dire che l’impianto è quello “tipico” del cinema indipendente americano tanto amato dal Sundance (e non a caso anche questa “gradevole” e caustica pellicola si è aggiudicata il premio del pubblico proprio nella rassegna dello scorso anno, tanto è conforme nella struttura rispetto a “quel” prototipo ormai ampiamente collaudato). Si potrebbe allora concludere che non c’è niente di nuovo sotto il sole, poiché ci viene raccontata una consueta storia di disadattamento giovanile (ma anche di “iniziazione” alla vita) condita con “amicizie anomale” disastri familiari e via discorrendo, un lavoro svolto con disincantata leggerezza di sguardo e giovanilistica baldanza, che consente però di esprimere una forte e pessimistica critica sociale a ciò che resta dei rapporti, dei sentimenti, della famiglia, della società, dei valori e di tutto quanto continua ad essere strombazzato intorno ai “principi fondamentali” di quella che viene definita “l’essenza costruttiva e serena dell’esistenza”, con quelle reiterate litanie pompate ad arte che non hanno paura del senso del ridicolo per come intenderebbero dipingerci rispetto a ciò che siamo invece diventati, grazie propri agli esempi propinatici e diventati vincenti (e il lavoro che ha fatto Van Sant in questa direzione è certamente molto più profondo e articolato, tanto per fare un importante esempio). Soprassediamo allora? Niente affatto, poiché io credo invece che sia in ogni caso positiva ogni occasione che ci consente di ritornarci sopra, ogni stimolo che ci induce a una riflessione oggettiva capace di aiutarci a comprendere meglio dove stiamo davvero andando, visto che procediamo sempre a rimorchio e in ritardo… e che l’America è “sempre” per certe cose, una cattiva maestra (o forse sarebbe meglio dire dove siamo già adesso, anche qui in Italia, pur con le debite differenze di prospettiva che non tornano certo a nostro favore, almeno al momento attuale delle cose… perché va persino peggio). Uno psichiatra capellone e il suo paziente un po’ sfigato, entrambi indomitamente refrattari al rispetto del conforme, sono in un certo senso gli elementi prioritari che rappresentano il baricentro del film sapientemente costruito da Jonathan Levine (sua anche la sceneggiatura, con molte battute al fulmicotone) e vivificato da un team di attori che potrei definire davvero in stato di grazia (ci si ripete spesso, ma non mi vengono in mente altre parole che queste, poiché il vocabolario degli elogi non è poi così esteso come si vorrebbe): Ben Kinsley (il Dottor Squires) prima di tutto, insolito e travolgente ancor più del solito che non ha certo bisogno di “accreditate” presentazioni, e si conferma attore di “razza” superiore, persino con il suo “gigionismo” un po’ esasperato ma necessario a definire la natura decisamente anarcoide del personaggio (che è davvero ciò che ci vuole, capace per altro di far trasparire fra le pieghe tutta la vuota tristezza della sconfitta, quella di un’esistenza ormai senza ideali, ma vissuta con la spudoratezza e il rimpianto di una giovinezza irrimediabilmente perduta, di chi forse immagina di non poter pretendere più nulla ma non è disponibile a confrontarsi davvero con il peso del fallimento, ed ostenta una stravaganza mentale che lo fa sembrare a volte anacronisticamente patetico). Accanto a lui, il giovane Josh Peck (Luke Shapiro), dalla faccia un po’ sorniona e l’esistenza in bancarotta, che è più di una gradevole sorpresa, l’elemento catalizzante del procedere dei fatti, poiché è su di lui e sulle problematiche “incrociate” della sua vita che si fonda il progetto, un attore - o meglio una promettente realtà - che ha già dalla sua il “consumato” mestiere e l’innato talento, due doti che gli consentono di mantenere con perfetto tempismo il passo con il più navigato co-protagonista, tenendogli testa davvero “alla pari” e senza alcuna soggezione reverenziale, così da creare insieme un duetto divergente ma ugualmente “godibile” che è, nel risultato pratico della fruizione, davvero l’elemento vincente. Accanto a loro, il consueto, “magnifico” cast di comprimari sempre straordinariamente aderenti a ciò che devono rappresentare, senza però dimenticare di citare, ancor prima di loro, quello che definirei “il terzo incomodo”: mi riferisco alla altrettanto brava (e bellissima) Famke Janssen (Kristin, la giovane, spregiudicata figliastra del dottore, a sua volta con i sentimenti alla deriva, instabilmente maliziosa, che illuderà il ragazzo per il breve sprazzo di un fine settimana, lo inizierà al sesso “svezzandolo” con l’esperienza già sufficientemente scafata della sua giovane età, facendolo per questo, innamorare follemente, per deluderlo però subito dopo con il suo comportamento irrequieto e un “immeritato” tradimento che spezzerà definitivamente il cuore di quel giovane ingenuamente problematico ma a suo modo sensibile e pieno di “sentimento” inespresso che nessuno sembra essere disponibile ad accogliere. Per come è organizzato il film, per la sua irriverenza “simpaticamente” eversiva, è condivisibile anche l’accostamento a “Shortbus” (Aldo Fittante su Film Tv) col quale condivide la carica provocatoria e dissacrante… anche se manca l’apporto “innovativo” del linguaggio che invece aveva quel film che non temeva di essere “politicamente scorretto” fino in fondo (non solo per l’assenza di scene hard analogamente disturbanti, che non sono poi così determinanti in un film che appoggia comunque la sua “offensiva” su una carta altrettanto fuori “schema” come quella della droga – ogni tipo di droga compresi tranquillanti e antidolorifici - che qui scorre davvero a “fiumi” insieme a fumo e alcool). E’ forse nel disegno organico della conclusione in prospettiva (che rimane certamente intessuta di analoga, “disperata” impotenza) che si marca la differenza, poiché Levine sembra voler inseguire una evoluzione più “superficialmente” conforme e meno “rivoluzionaria”. Se il percorso è necessariamente formativo nonostante la difficoltà di integrazione del ragazzo che vive come appartato nella sua realtà che sembra accettare e non “combattere”, l’approdo (con quel buffo e un po’ “improbabile” ribaltamento dei ruoli e forse un tantino troppo conciliante) fa immaginare l’avvenuta acquisizione di una consapevolezza “positivista” per quanto amara, che rappresenta l’inevitabile passaporto per la maturità (del resto è proprio lui che, a di là delle inosservanze programmatiche soprattutto relative allo spaccio, ci viene presentato come l’elemento più realisticamente “ricettivo” nonostante la “solitudine” interiore che lo isola dalla società e la litigiosità di una “famiglia” che ha solo il nome e non la sostanza di ciò che dovrebbe essere e rappresentare, così incapace com’è di ascoltare e di direzionare, che è poi la “tragica realtà” che vivono coloro che vengono classificati nelle categoria degli “sfigati”, i “senza famiglia”, poiché non è davvero quella “anagrafica” che conta ed ha valore). E Luke è proprio questo: un ragazzo solitario e schivo e a suo modo troppo consapevole (anche dei suoi limiti), assetato di affetto e di amore, fotografato nel momento cruciale rappresentato dalla fine dell’adolescenza (è appunto in quel momento che si colloca l’estate che precederà la sua partenza per il college, che prefigura l’arrivo inesorabile dell’età adulta). Schiacciato dalla litigiosità indifferente ai suoi bisogni di una famiglia”indegna” e che sarebbe un eufemismo definire poco presente, spaccia droga (più che altro fumo) con un carretto di gelati che “camuffa” egregiamente il traffico sotterraneo della “trasgressione perseguitata per legge”, utilizza appropriatamente il cercapersone per non essere colto in flagrante (è insomma a suo modo “un dritto”), con l’obiettivo non solo di racimolare un po’ di soldi per se stesso e per tentare di evitare uno sfratto che l’imbecillità del padre “sperperone” renderà praticamente inevitabile, ma anche di sentirsi “qualcuno”. Privo di anici e perdente con le donne che non lo considerano degno di attenzione, si pone il problema dell’equilibrio mentale andando da una specie di psicoanalista “fuori schema” (che retribuisce con qualche bustina di marijuana o droghe similari) ex e frustrato epigono dell’epoca dei “figli dei fiori”, pieno di malcelati rancori (e di rimpianti) per i suoi fallimenti esistenziali, che elargisce consigli anche scriteriati, oltre a bere e a buttar giù ogni tipo di droga e tranquillanti assunti in dosi sconsiderate, l’unico personaggio con cui però il ragazzo, riesce a creare un rapporto, ad entrare in sintonia empatica, in pratica l’unico amico che ha , la sola persona con la quale “può” dialogare (e non si riesce mai davvero a definire o a capire chi fra i due è il paziente e chi il terapeuta, tanto sono confuse le posizioni e i rapporti). Fra loro, la figliastra, la moglie divorzianda, i genitori litigiosi, gli spacciatori, la polizia repressiva e le tante esistenze allo sbando – i clienti - esibite con sfrontata ironia dalla quale però ben traspare la disperazione totale e assoluta che sta dietro a quel “vuoto” pneumatico che nessun paradiso artificiale potrà mai colmare, né sarà capace di restituire ciò che si è perduto.
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