Regia di Greg McLean vedi scheda film
In inglese “rogue” significa “disonesto, furfante, canaglia, malvivente”, ma riferito ad animale, come nel caso del gigantesco coccodrillo marino del film di Greg McLean, significa “solitario, isolato”. C’è un passaggio tratto da El bandido adolescente (1965), romanzo western dedicato a Billy the Kid scritto da Ramón José Sender, uno dei più grandi scrittori del Novecento che, riferendosi a un elefante rogue, utilizzato come paragone per il temperamento del Kid, dice: «“Billy, ci sono molti tipi di esseri viventi. Tu e io apparteniamo alla stessa casta. Quale casta? Quella di una specie di elefanti que in India chiamano rogue.” Io risi perché quella parola ha due significati: il rogue, ovvero, lo spregiudicato, e l’elefante rogue, ovvero, quello che va solo. […] E mi disse: “Tu , Billy, sei un rogue furioso. Io sono un rogue pacifico e a volte un po’ filosofo, anche se non così coraggioso come te”.» A parlare è il fratello di John Tunstall, il mentore di Billy the Kid, che così gli risponde: «Billy, anch’io sono stato in India e so cos’è un rogue. È l’elefante solitario che si comporta in modo diverso e per questo è allo stesso tempo amato e temuto. È l’elefante che si rifiuta di accettare le abitudini e a volte alza la testa e la proboscide al cielo e grida nella foresta e gli altri animali si azzittisco a sentirlo.»
Nell’animal attack movie del regista australiano, un gruppo di turisti invade il territorio di un grosso coccodrillo marino, molto aggressivo, che subito si scaglia su di loro e li cataloga come cibo. È quindi un rogue furioso, un solitario che difende il proprio territorio e ingaggia guerre con qualunque essere vivente, essendo tra l’altro al vertice della piramide alimentare di tale territorio. In Australia infatti non ci sono predatori terricoli, se escludiamo i branchi di dingo. I più grandi predatori australiani stanno in acqua: coccodrilli marini, i più grossi e aggressivi della famiglia, e gli squali bianchi.
Il coccodrillo ha tante simbologie ed è per questo che è tra gli animali più utilizzati in questo preciso filone horror (36 titoli ca.), dietro a serpenti (40 titoli ca.) e squali (65 titoli ca.). Le simbologie più immediate sono la primitività, quindi l’ancestralità e la paura per una natura ferina e indomabile, forze ataviche, spesso ctonie, che emergono dalla terra e turbano l’equilibrio umano; e la chiara simbologia fallica che attiva quindi nei personaggi confronti intimi con le proprie frustrazioni sessuali (gli uomini) e la paura per il fallo (le donne), scatenando di conseguenza delle risposte estreme come la caccia spietata all’animale o la lotta per il dominio della bestia. I coccodrilli sono dei dinosauri ancora viventi, per farla facile, e allo stesso modo, anche squali e serpenti riportano alla primitività del mondo. Inoltre, sia squali che serpenti, hanno nella loro forma fallica un altro aspetto simbolico avvicinabile alla figura del grande rettile. Non è quindi un caso che gli animal attack movie vedano proprio in squali, serpenti e coccodrilli gli animali ferini più significativi – senza escludere ovviamente il successo commerciale di Jaws (Steven Spielberg, 1975) che è sicuramente alla base del filone killer shark.
L’animal attack movie è naturalmente un sottogenere dell’horror, ma è anche, il più delle volte, un puro wilderness drama. La natura è lo scenario della lotta tra uomo e animale. Uno scenario attivo, non un fondale passivo. E quando la minaccia animale non è il motore narrativo della storia, è la natura stessa con i suoi elementi primordiali a ricevere la sfida dell’uomo. Una sfida vecchia tanto quanto il genere umano stesso e per questo mai davvero abbandonata. Dopotutto la cultura americana si basa proprio, tra le altre cose, anche sull’incontro/scontro con la natura e il tentativo di dominarla.
In Rogue, McLean, sceglie di rappresentare la sua terra tenendo in considerazione l’ovvio approccio internazionale della pellicola, senza però sottovalutare le sottili differenze insite nel rapporto con la wilderness che ci sono tra America e Australia. La protagonista, per esempio, è una ragazza australiana che non ha mai visto nulla di diverso dal suo paese, mentre il protagonista maschile è uno scribacchino americano che lavora per una rivista di viaggi. Il resto dei personaggi sono borghesi accomodati, a parte i due bogan – i redneck australiani – tra cui un giovane Sam Worthington, e quindi per lo più sono persone viziate, egoiste, inette, fuori luogo nella natura selvaggia ed incapaci di adeguarsi alle necessità. Il regista infatti non punta il dito sulla mostruosità del rettile per indagare finemente aspetti psicologici o esistenziali, si concentra soprattutto sul sistema dei personaggi che, inizialmente vengono presentati secondo la loro tipizzazione, e successivamente, attraverso dialoghi e azioni, ci vengono svelati per quello che sono.
Ad oggi, Greg McLean è a mio parere il miglior regista di film horror. Soprattutto wilderness horror se vogliamo ribattezzarli così. Nel suo cinema migliore è la natura selvaggia, la sua iconografia di base e i suoi dettagli a innervare la narrazione. Narrazione che poi, felicemente, trova nella vulcanica creatività del regista le modulazioni narrative migliori e più efficaci.
Sebbene Rogue non tocchi i vertici di Wolf Creek (la saga: 2005, 2013; serie tv: 2016-2017), permette al regista di esemplificare nuovamente la sua poetica. McLean non è un regista horror fine. È rozzo e fa della brutalità della violenza, in tutte le sue forme, la propria estetica. Barocca e grottesca, l’estetica di McLean è anche carnale, rurale, tellurica. Credendo fortemente che la forma è il contenuto, vien da sé che l’estetica è anche la poetica di un autore, quindi, nel caso di Greg McLean la sua è una poetica che si concentra strettamente sul materico, lasciando alla psicologia il piccolo spazio che merita.
Il film quindi, seguendo la prassi del filone, introduce innanzitutto l’ambiente naturale per poi passare ai personaggi, piazza in seguito la prima svolta che attiva il procedimento ad imbuto teorizzato fin da Hitchcock in Gli uccelli (1963), ovvero tutti i personaggi cercano di convergere nell’unica direzione, nell’unico luogo sicuro per rifugiarsi, e infine, con la seconda svolta, si focalizza su un altro topos tipico e classico del genere, senza il quale, a mio parere, non sussisterebbe il genere stesso, ossia, il confronto diretto e ferino tra l’uomo e la bestia.
Il coccodrillo digitale è realizzato estremamente bene, e anche grazie al fatto che il regista utilizza “la tecnica squalo”, cioè non ci mostra subito il coccodrillo, ma ne fa avvertire la presenza con rapide apparizioni o addirittura attraverso la sua “assenza”, l’avvento della mostruosità non risulta posticcio. Purtroppo, il digitale, seppur ottimo, è sempre percepito dal nostro occhio come qualcosa di irreale che non appartiene al mondo materico. Il risultato è una fluidità di movimento del coccodrillo irreale, che ci distanzia ulteriormente dal reale. Sotto questo aspetto è molto meglio il coccodrillo gigante di Giannetto De Rossi in Killer Crocodile (1989).
A parte qualche improbabilità, come tutta la sequenza nella tana del mostro, il film è una spassosa avventura tra i canoni abbastanza modificati del genere. Dopotutto, Greg McLean, ha un particolare gusto estetico, il suo sguardo è terrigno, l’elemento naturale domina sempre sui personaggi – tranne su Mick Taylor, che in Wolf Creek è parte della wilderness australiana – e riesce così a regalarci film che vanno oltre il jumpscare o l’enigma fantasmatico o la maledizione stregonesca, più per palati fini. McLean preferisce la natura, di cui fanno parte anche la carne e il corpo umano e animale, ovvero, come direbbe Bauman, l’unica cosa che ci resta in questa società liquida.
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