Regia di Jacques Nolot vedi scheda film
Ad inizio anni 2000, Pierre, uno scrittore alla soglia dei sessanta, si ritrova solo dopo che il suo compagno ed amico editore muore. A quel punto, solo e dedito a trascorrere le interminabili giornate tra la complicità cameratesca dei pochi amici coetanei che gli sono rimasti, e le avventure sessuali con giovani mercenari che lo raggiungono a domicilio, o che l'uomo incontra nei locali gay attorno al quartiere di Pigalle, a Parigi.
Seguiamo l'uomo nella sua routine quotidiana fatta degli incontri di cui sopra, sigaretta perennemente accesa e tra le labbra, ma anche di sedute dallo psicologo, divenuto ormai quasi un palliativo indispensabile non tanto per trovare soluzioni che nemmeno più cerca, ma per trovare il tempo ed il modo di raccontarsi, e decidere razionalmente se conviene rrascinarsi avanti, sorretto da qualche sporadico ed effimero piacere della carne, o trovare una soluzione definitiva verso una fine che pare il desiderio più sentito e ricorrente di un uomo in fondo solo e cautamente disperato. Ma il ritrovamento casuale di una lettera risalente a 15 anni prima, scritta dal suo compagno defunto, apre a Pierre la via per una soluzione forse meno drastica e definitiva.
Ultimo - per ora - tassello di una ideale trilogia registica intima, personale, e fortemente autobiografica di Jacques Nolot apertasi con L'arrière-pays del '98 e proseguita con La chatte à deux tetes del 2002, "Avant que j'oublie", presentato a Cannes alla sezione Quinzaine des Réalisateurs, è un gran film di fatto epocale, ma che resta intimista ed introspettivo, tutto a ridosso di una categoria di uomini non più giovani, omosessuali, a volte altolocati, altre volte occupati a gestire gli anni dell'oblio dopo una vita condita di qualche soddisfazione, ma sostanzialmente tutti soli, impegnati a restare a galla e a gestire una vita che ora pare rivolta solo a chiedere stesure implacabili bilanci e a favorire crisi esistenziali o percorsi che conducono a soluzioni indirizzate a farla finita.
Un film piccolo, introspettivo, coraggioso nel raccontare singoli istanti di vita senza ricercare appiglio alcuno per suscitare false e tendenziose tenerezze o simpatie, o ancora meno facili accondiscendenza, il film di Nolot ci descrive un'anima inquieta che si ritrova a gestire un corpo ormai quasi vecchio, sempre meno gradevole e difficile da ostentare ai terzi col vanto e la indolenza dei trent'anni ormai compiuti quasi due volte. Nolot si spoglia letteralmente dinanzi alla macchina, si mette a nudo senza falsi pudori, guidato da una sincerità d'intyenti che sa spiazzare e risultare travolgente.
E la sfida tutta interiore tra il vivere quel che resta, dedicandosi finché si può ai piaceri fuggevoli, istintivi, appaganti ma anche effimeri come una fitta di piacere che passa e si allontana, e l'anelare ad una morte facile e meno indolore possibile, ma anche un pò vigliacca, diviene quasi una vera e propria ossessione, un refrain che altalena nella mente di un uomo che ormai ha solo più tempo e modo di pensare a se stesso, trovando più conforto nel passato che verso le incognite di un futuro sempre più nebuloso e sgradevole.
Se Tra Nolot e Cyril Collard dell'intimenticato ed altrettanto epocale "Le notti selvagge" (romanzo e film completamente autobiografici su una malattia e morte pressoché in diretta) c'è quasi una generazione che li distanzia (Nolot è del '43, Collard era del '57), tra di due autori esiste quasi un passaparola che genealogicamente e curiosanente ha intrapreso un percorso contrario a quello anagrafico che contraddistingue i due autori, ma ugualmente lucido e coraggioso, drammatico, ma anche sincero e profondamente umano.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta