Regia di Lee Unkrich vedi scheda film
La maggiore differenza tra le produzioni Pixar e le Dreamworks, al di là della qualità tecnica, risiede nella narrazione. Se i film Dreamworks privilegiano il rimando e il gioco evidente della stratificazione. Chiedendo al pubblico la consapevolezza dei rimandi e ammiccando di continuo ad un grado ulteriore ad accattivarsi lo spettatore adulto, i film Pixar fanno sempre prevalere la trama e da quella conseguire le citazioni, integrate al testo e non derivate, creando una stratificazione senza imposizione e una più agevole e sincera fruizione per tutti i pubblici possibili.
Il racconto prevale sempre, con la sua logica e la sua vitalità intrinseca, non si piega alle imposizioni della ricerca di un interlocutore variegato ma alla conquista dello spettatore, rapito dal racconto e dalla meraviglia della sua esecuzione.
L’uso della terza dimensione in Toy Story apre una finestra su un universo concretamente fittizio, integrato e parallelo al nostro, un mondo di favole quotidiane legato alla fantasia infantile che la resa grafica trascende e moltiplica in perfetta continuità con le puntate precedenti. E, con un parallelo con il mondo reale, interpone tra gli episodi il medesimo passaggio del tempo, il variare degli anni e dello sguardo sul mondo che subisce il protagonista umano dei tre film, passato da bambino ad adolescente. Ed è proprio su questo scarto cronologico che la farsa dei burattini giocattolo si fa tragedia di crescita, rito di inevitabile passaggio nel dimenticatoio polveroso dell’infanzia.
Di fronte alla realistica possibilità dell’oblio, la lotta dei protagonisti si fa tragicomica, diventa il tentativo di scoprirsi e scegliersi un futuro (all’asilo, presso un altro bambino) avendo adempiuto il proprio compito. Il loro tempo è terminato perché il bambino è cresciuto e in partenza dalla famiglia e verso la vita. La fuga rocambolesca verso la libertà è un tentativo di ritorno all’ordine precedente, diversamente declinato dalla nuova natura del rapporto da instaurare. Toy Story 3 è un remake e un reboot dell’originale, un ritorno a nuove origini per gli stessi personaggi con una differente ambientazione, l’approdo alla consapevolezza che niente può durare per sempre, se non il ricordo.
Alimentato dall’orrore grafico di Burton e dalla citazione delle tappe precedenti, il film non si limita al riciclaggio del dejà-vu ma insiste nell’amalgamare ogni influenza all’interno di una storia autonomamente valida, nel dare spessore e spazio ai personaggi (seppur giocattoli) per darsi quell’indipendenza consapevole che i suoi stessi protagonisti cercano o temono. Nell’inconsistenza fantastica dell’illusione ludica, il 3D contribuisce allo spasso di disavventure più vere del gioco o della sua immaginazione, dando consistenza alla finestra dello schermo cinematografico, aperta lungo la parete della sala buia per far entrare il sole di un racconto solo in apparenza infantile.
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