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Toy Story 3. La grande fuga

Regia di Lee Unkrich vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Toy Story 3. La grande fuga

di elendill
10 stelle

Alla ricerca della vita segreta dei giocattoli.
Nascosti dietro la porta, ad aspettare in silenzio che l’assenza permetta all’incanto di compiersi, alla loro esistenza di tornare a scorrere: chissà in quanti, bambine e bambine, da quel fatidico 1995 in poi avranno provato l’esperimento di sottrarsi alla presenza dei giocattoli sperando che i protagonisti, gli attori dei propri sogni color pastello rivelassero la loro personalità, la loro voce, il loro mondo sotterraneo di colori e bisogno di appartenenza. In nessun altro film quanto in Toy Story i ragazzi della Pixar sono stati capaci di scandagliare i sentimenti più individuali che li muovevano e che sono riusciti a trasporre su pellicola, a incarnare nei personaggi – i giocattoli appunto – più impensabili, personaggi muti e plasmabili a proprio piacimento, tutti uguali e tutti ugualmente interscambiabili, buoni e cattivi, vecchi e nuovi, e che acquistavano così una propria essenza silenziosa; mai come in Toy Story l’idea della comunanza e dell’universalità delle emozioni era stata mostrata tanto efficacemente in altri film d’animazione, con questi balocchi che, fossero fatti di pezza o di plastica, erano mossi da valori e affetti oltreumani.
Woody il cowboy e Buzz l’esploratore spaziale ne avevano passate tante: dalla scoperta della loro finzione (quasi uno “strappo nel cielo di carta” quello che squarciava le certezze di verità e libertà dell’astronauta Lightyear, nel film apripista) alla paura dell’inutilità del loro stesso esistere, dalla ricerca di un senso trovato in un sorriso caldo di un bambino, al vano desiderio di un’immortalità vuota rinchiusi in una teca di vetro; ma il punto di rottura, il tourning point che mette la parola fine alla trilogia è quello più difficile, più insidioso e inevitabile: il cambiamento di quel bambino, il punto d’arrivo e di inizio di un ciclo, dell’ignoto che frana dall’alto. Il tutto raccontato con incredibile misura e consapevolezza, all’interno di un terzo episodio che compie un’impennata qualitativa e quantitativa, imbottendosi di nuovi personaggi, nuove traiettorie, nuovi abissi di profondità da esplorare, incorniciandosi di citazioni e battute irresistibili e reggendosi su una sceneggiatura che più solida e densa non si può.
Perfino più completo, compiuto e organico di Wall-E e Up, Toy story 3 ci proietta inizialmente nell’universo totalizzante delle fantasie infantili, sterminate e incontaminate, con un omaggio divertente e sfizioso alle avventure create da Andy nei primi due capitoli (e fino ad ora rimaste solo ‘mentali’), collocate in un’ambientazione western scatenatissima; per poi catapultarci nell’amara realtà, in cui le sfrenate invenzioni che ci avevano sommerso rivelano il loro volto di carta e celluloide, dal momento che l’essere umano per cui i nostri nutrono un’imperitura e sconfinata devozione non ne ha più bisogno. Ma è “sempre lui”, è “il nostro bambino, il nostro Andy”, e allora no, non ci si può arrendere: perché è unico, perché in fondo c’è qualcosa che non cambierà mai, qualcosa per cui non riusciamo a strapparci da quella scatola, qualcosa che spezza il cuore (umano e non) di fronte a una camera vuota.
Incredibile come la profondità di sguardo di Lasseter e soci (qui Unkrich compie un lavoro notevole) non faccia che espandersi e dilatarsi, attraverso un caleidoscopio di caratteri mirabolanti e fino all’ultimo sorprendenti (un Ken modaiolo e dotato di un armadio da sogno che farebbe impallidire Carrie Bradshaw, che si ‘redime’ per una Barbie la quale, in una sola frase tosta cancella qualsiasi pregiudizio e accusa di superficialità alla mitica bambolina), approfonditi (Lotso è un cattivo che è tale, come d’altra parte lo stesso Stinky Pete del precedente Toy Story 2, perché non amato o meglio perché ferito e privato di quell’amore), cresciuti (il Woody del finale ha una pienezza, un equilibrio, una saggezza che il primo, egocentrico Woody ancora non conosceva). Come noi, più di noi.
Alla faccia del film d’animazione; sì, perché questa fantasia rigogliosa non cessa di far fiorire sbalorditive emozioni extra cinematografiche e cartoonistiche (basti pensare alla scena da pelle d’oca dell’inceneritore: anche perché, se l’asilo è un lager, la discarica e la fornace hanno un significato altro facilmente individuabile…), e circostanze spassose che arrivano a tutti, qualsiasi sia la loro età anagrafica.
E alla fine, non resta che tornare da Andy: come sempre, per l’ultima volta; per l’ultimo gioco. Ed è Andy che li porta ad una nuova rinascita, ad una seconda vita tramite un commovente passaggio di consegna, un volo di fantasia incantata e struggente che è un addio custodito e consegnato agli occhi nascenti di una bambina. Prima che i giocattoli lo lascino andare, com’è giusto benché triste che sia, pienamente consapevoli e partecipi di una sorte che sono riusciti in qualche modo a scegliere: quello di essere destinati non ad essere consumati, bensì vissuti fino all’ultimo respiro di cotone.
E dietro quel saluto incerto e quella macchina che svanisce in fondo ad una strada, una porta chiusa e un orizzonte che si apre, si conclude il capolavoro più maturo della Pixar. Al di là di esso, si spalancano solo altri cammini di luce: verso l’infinito e oltre.

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